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Domani 5 novembre il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, sarà a Conversano per commemorare Giuseppe Di Vagno ucciso da una squadra fascista novant’anni fa a Mola di Bari. Il nostro storico Nicola Mascellaro ha scritto un profilo del martire pugliese inserito in quei terribili anni Venti.
Alle 11 della sera di domenica 25 settembre 1921 a Bari si sparge la voce che una squadra fascista ha sparato e ferito mortalmente il deputato socialista Peppino Di Vagno in un agguato nella vicina Mola.
Qualche ora dopo la Camera del Lavoro e la sezione socialista barese proclamano uno sciopero generale provinciale mentre il segretario della CGdL, Giuseppe Di Vittorio, insieme con altri componenti la segreteria sindacale, salgono su una vettura e corrono all’ospedale di Mola dove Peppino Di Vagno è morente.
È una fortuna che sia tardi. Da diversi mesi c’è molta tensione e la diffusione di una così grave notizia avrebbe fatto esplodere l’intera provincia. Tant’è che durante la notte le autorità militari e di pubblica sicurezza fanno affluire soldati, guardie regie e carabinieri dislocandoli in vari punti strategici della città.
Il 1921 non è il migliore degli anni per i socialisti pugliesi. Ad essere onesti l’aria dell’intero Paese non è molto salutare per loro. Ma in Puglia, dove la disoccupazione, la miseria e la fame sono più nere che altrove, l’impegno, la lotta sociale e politica del Partito Socialista contro gli agrari, i nemici di sempre della popolazione pugliese, sono più aspri che altrove.
E sono i socialisti a pagare il prezzo più alto.
Ma è tutta colpa loro. Sono moderati, pacifisti, riformisti e massimalisti. Sono, come sempre, tutto e il contrario di tutto. Molti socialisti sono borghesi o figli della borghesia, traditori di quella sana società latifondista e industriale del Paese; alcuni sono addirittura intellettuali, la razza più pericolosa, una genìa che con subdoli metodi di lotta fomenta sedizione e disordine.
Subito dopo la guerra, il Paese è precipitato in una grave crisi economica che finisce per acuire il disagio di milioni di cittadini meridionali, soprattutto dei lavoratori della terra e Giuseppe Di Vagno, l’uomo più rappresentativo del socialismo pugliese, paga con la vita per il suo impegno professionale – il suo studio legale difende i tanti contadini arrestati per aver occupato pacificamente migliaia di ettari di terre incolte – e paga per il suo impegno politico e sociale profuso per cambiare le misere condizioni di vita dei braccianti.
Peppino Di Vagno nasce a Conversano il 12 aprile 1889, un centro agricolo con meno di 10mila abitanti, da Leonardantonio e Rosa Rutigliano. I due coniugi sono piccoli proprietari terrieri abbastanza agiati da consentirsi d’inviare il giovanotto, un gigante per la statura media dell’epoca, prima al liceo e poi all’Università di Roma dove si laurea in legge nel 1912.
Nella Capitale, Peppino abbraccia gli ideali del socialismo subendo l’influenza ed il fascino oratorio di Enrico Ferri senza tuttavia condividere le posizioni massimaliste del grande animatore politico. Si schiera in difesa delle rivendicazioni proletarie e due anni dopo, tornato in Puglia, apre uno studio legale dove incontra, discute e parla del lavoro che non c’è con centinaia di contadini e operai aiutandoli a difendere i loro diritti nelle aule dei tribunali. Spesso erano accusati di coltivare abusivamente terre del demanio o quelle abbandonate dagli agrari.
Nel 1914 Di Vagno si candida per un seggio di consigliere provinciale nella lista dei socialisti. È un plebiscito: allo scrutinio del 21 giugno ottiene 1.776 voti su 2.042 votanti. Designato capogruppo dei socialisti inizia la sua carriera polemizzando e denunciando carenze e lentezze del Consiglio provinciale trovando un valido supporto in Gaetano Salvemini.
Insieme al professore di Molfetta, Di Vagno denuncia ritardi nella costruzione del Porto di Bari, dell’Acquedotto Pugliese, la carenza di collegamenti ferroviari e stradalie, l’assenza di un grande ospedale provinciale e di un manicomio; l’inefficacia del Consiglio presso il Ministero dell’Istruzione per ottenere qualche cattedra Universitaria, senza contare l’inesistenza di una Stazione Agraria Sperimentale in un’area che vive quasi esclusivamente dei prodotti della terra, una rete adeguata alla commercializzazione della produzione agricola e, soprattutto, l’insensibilità della borghesia terriera che lascia inaridire vaste zone di terra fertile piuttosto che darle in conduzione ai braccianti per sfamare le loro famiglie. Né mancano denunce pacate ma ferme contro la corruzione, il trasformismo e le camarille massoniche.
Eletto anche consigliere comunale di Conversano in una coalizione progressista, Di Vagno non cessa di promuovere lotte popolari e bracciantili inimicandosi così non pochi proprietari terrieri che più tardi si vendicheranno.
Quando esplode il primo conflitto mondiale, Di Vagno, interventista alla vigilia, cambia idea – «è una guerra imperialista. Non ci appartiene» – e, dopo numerosi discorsi avverso il militarismo, è accusato di disfattismo.
Chiamato alle armi, nel 1917 è assegnato a Firenze dove, nonostante sapesse di essere sorvegliato per le sue opinioni pacifiste, partecipa ad una riunione clandestina per promuovere iniziative contro la guerra… e viene trasferito e confinato in Sardegna.
Dall’isola inizia, e continuerà dopo la fine della guerra, una proficua collaborazione giornalistica con il settimanale l’Oriente diretto da un suo coetaneo e compagno di lotte, Alfredo Violante, giovane avvocato di Rutigliano, grande animatore culturale e brillante giornalista.
I due sono caratterialmente l’uno l’opposto dell’altro. Nonostante la sua imponenza, Di Vagno è persona mite e pacata e, come tale, è naturalmente affascinato dall’attivismo e dalla forza intellettuale di Violante che ha già al suo attivo la direzione de Il Quotidiano pubblicato a Trani nel 1913.
Le strade di questi due grandi protagonisti del socialismo pugliese s’intersecano e divergono più volte, ma entrambi avranno in comune un tragico destino: Di Vagno è ucciso dai fascisti; Violante si perde nel 1945 nel campo di sterminio nazista di Mauthausen in Austria.
Finita la guerra, mentre Violante fonda, dirige e chiude un giornale dopo l’altro, per le sue violente note polemiche – l’ultimo cui collabora Di Vagno è Il Giornale del Sud – il quadro politico si fa caotico.
Prima che iniziasse la guerra, i governi della destra storica di Antonio Salandra e Paolo Boselli avevano promesso ‘terra e lavoro per tutti’, ma al termine del conflitto ai governi di destra succede prima la sinistra storica, con Vittorio Emanuele Orlando, poi i radicali, con Francesco Saverio Nitti; segue l’ormai screditato Giovanni Giolitti e, infine, i socialisti riformisti di Ivanoe Bonomi. Tutti e quattro deboli e naturalmente impossibilitati a mantenere le promesse della destra e dei grandi latifondisti. E comunque, dopo la guerra, c’è un’altra necessità impellente ad impegnare i governi: nonostante gli enormi profitti ricavati dal conflitto, gli industriali tardano a riconvertire il sistema produttivo… senza gli aiuti dello Stato. E l’agricoltura deve essere ancora una volta sacrificata.
Così, braccianti, operai e centinaia di migliaia di reduci si riversano nelle piazze chiedendo ai governi mantenere le promesse – solo il demanio possiede milioni di ettari di terre incolte – e di frenare il caro vita per gli alimenti di prima necessità. Il costo della farina, zucchero e latte è salito alle stelle e agli scioperi per la disoccupazione si aggiungono manifestazioni e proteste per l’inflazione.
Per tutto il 1919 il Paese è teatro di lotte serrate. Uno sciopero di contadini a Lucera provoca quattro morti e decine di feriti; un altro ad Andria lascia a terra due morti. Per la prima volta il giornale della borghesia pugliese, il Corriere delle Puglie diretto da Martino Cassano, ha parole dure contro i latifondisti nostrani «si metta la proprietà terriera sotto il controllo dello Stato, che la misura è colma» e aggiunge «che un comitato di tecnici li costringa a fare quello che meglio risponde all’interesse nazionale e quando si rifiutano, li espropri dei loro beni da affidarsi alle organizzazioni cooperative dei contadini».
In questo Corriere, che non ha cambiato rotta ma che, come sempre sceglie di salvaguardare il bene della comunità pugliese, trovano spazio Nicola Pastina, Giuseppe Di Vagno e perfino Alfredo Violante. Ma è una breve stagione, una ventata di pluralismo che presto si esaurisce. Gli animi sono troppo accesi e la redazione del quotidiano di Martino Cassano finisce per subire l’influenza dell’acceso nazionalista di Molfetta, Leonardo Azzarita, che vede con sospetto pacifisti e moderati, in generale chiunque non sia schierato e prima delle elezioni politiche di novembre 1919 la primavera socialista nel Corriere è finita.
Giuseppe Di Vagno trova subito spazio nel nuovo organo di stampa della Federazione socialista di Terra di Bari, Puglia Rossa, ma non ha tutta questa voglia di rendersi visibile. Scrive firmandosi con diversi pseudonimi e ci vorrà del bello e del buono per fargli accettare, più tardi, la direzione del giornale. Alfredo Violante, invece, fonda un nuovo quotidiano, Nuovo Corriere, che come le altre sue iniziative editoriali, avrà vita breve.
Intanto, gli scioperi e le manifestazioni di piazza si susseguono. Sono giorni di grande tensione e di fronte all’incapacità del governo di controllarle nascono, a Milano, i fasci di combattimento, a Roma la velleitaria Associazione Nazionale Combattenti cui aderiscono Gaetano Salvemini, Tommaso Fiore e Alfredo Violante. Non vi aderisce Di Vagno il quale, fedele ai suoi principi non violenti, resta fuori della mischia insieme al mazziniano Piero Delfino Pesce.
A novembre si vota e nonostante l’impegno profuso da Di Vagno nella campagna elettore, la direzione nazionale del PSI decide di non inserire il suo nome nelle liste della circoscrizione Bari-Foggia. Sembra che ai vertici del Partito non abbiano gradito la sua adesione al ‘programma meridionalista’ di Gaetano Salvemini che, invece, è eletto nella lista autonoma dei Combattenti. Di Vagno non se ne fa un problema. D’altronde sa bene che la segreteria nazionale del Partito è nelle mani dei massimalisti e che pacifisti e moderati sono a malapena tollerati. Né i risultati elettorali risolvono la grave crisi politica ed economica del Paese. Nel corso del 1920 il costo della vita è aumentato del 90%, la disoccupazione non accenna a diminuire e il governo non riesce, non vuole, dicono i liberali, arginare la protesta nelle piazze. Dopo l’ennesimo aumento del costo del pane, il secondo governo di Francesco Saverio Nitti perde l’appoggio dei Popolari di don Sturzo ed è costretto a dimettersi.
È il 15 maggio del 1920 quando il Re chiama Giovanni Giolitti a formare il nuovo governo sperando in un miracolo del vecchio statista. Ma Giolitti, che ha lasciato il potere prima della guerra travolto dagli scandali, non è gradito dalla nuova classe politica «la sua eredità, il suo vecchio potere esala, ancora oggi, un lezzo di corruzione e miseria morale e politica» dirà Salvemini all’annuncio del Re. Inoltre egli è assolutamente inadatto ai tempi che corrono.
Sulla scena politica nazionale si sono imposti nuovi soggetti, nuovi protagonisti, portatori di ideologie ed esigenze politiche e sociali non rapportabili alle necessità dell’ante guerra. Nel 1919 è nato il Partito Popolare, i già menzionati fasci, che nel ’21 daranno vita al Partito Nazionale Fascista e l’Associazione Combattenti, trasformatosi in Partito autonomo. All’interno poi di queste organizzazioni nascono le cosiddette ‘braccia armate’ le ‘squadre d’azione’ fasciste, le ‘guardie rosse’ della sinistra che presidiano le fabbriche e gli ‘arditi’ ex militari sbandati che si gettano nella mischia tirando manganellate a destra e a manca.
In aggiunta a questo clima torbido e bellicoso, Giolitti riconosce il ‘sindacato bianco’ del padronato, nella speranza di avere l’appoggio dei Popolari del sacerdote siciliano, senza tentare di frenare l’inflazione e meno che mai gli scontri fra le opposte fazioni.
Si scatena il caos.
Quasi tutte le piazze d’Italia diventano campi di battaglia. Le peggiorate condizioni di vita moltiplicano gli episodi di violenza. Gli scioperi, le manifestazioni di lotta sono contro il padronato, l’inettitudine dei governi e l’arroganza dei partiti. Tutti contro tutti in una battaglia politica e sociale senza precedenti. Scendono in sciopero braccianti, operai, impiegati e commercianti, dai panificatori ai barbieri, in uno scontro che coinvolge il sindacato rosso e il sindacato bianco, i partiti di sinistra e i partiti di destra, i massimalisti, i nazionalisti e perfino gli anarchici che hanno richiamato in Italia il leader mondiale del movimento Errico Malatesta.
Paradossalmente tutti, dalla destra storica ai liberali, dai nazionalisti ai fascisti, agli anarchici finanche le forze dell’ordine, sembrano avere un nemico comune: i socialisti. Tanto che il Corriere vede con favore gli interventi delle… «fresche e battagliere avanguardie della borghesia, la cui forza risanatrice riesce a battere ovunque i socialisti».
Ben presto, però, la violenza degenera, il bilancio delle vittime si fa pesante. Si tenta di correre ai ripari denunciando i contendenti e dando per scontato che i ‘provocatori’ sono socialisti… «il socialismo è come una malattia, il fascismo è come una reazione che deve vincere la malattia – scrive ancora il Corriere – ma l’uno e l’altro hanno preso una forma volgare e brutale. Bisogna correggerli, bisogna correggere le nostre conoscenze se non vogliamo la morte». Troppo tardi.
Gli scontri si susseguono provocando decine di vittime, ma stranamente gli episodi più tragici, i delitti più atroci avvengono nel Mezzogiorno: 3 a Canosa, 2 a Ruvo, 3 a Minervino, 4 a Parabita, 9 a Gioia del Colle, 3 a Nardò, 2 a Brindisi, 11 morti a San Giovanni Rotondo. A Bari una donna è uccisa in uno scontro con le guardie regie a seguito di una spontanea manifestazione di protesta per l’ennesimo decreto che aumenta il costo del pane.
Il disastro economico del dopoguerra e la mancata riforma agraria, hanno messo in ginocchio tutto il Mezzogiorno che, rispetto al Centro Nord non ha neanche la possibilità di soddisfare i bisogni primari più elementari, ed è alla fame.
Così accade che mentre da Roma in su le lotte, gli scioperi sono più politici che sociali – a Torino infatti i metalmeccanici scendono in sciopero per avere il Consiglio di fabbrica – dalla Capitale in giù si muore per avere un tozzo di pane da portare a casa, alla moglie, ai figli.
Ecco perché nel Meridione come nel Polesine la lotta, gli scontri sono feroci. Sono nutriti da quell’odio che solo la fame può giustificare. E quando i contadini meridionali affrontano con zappe e roncole le squadre fasciste degli agrari, che in groppa ai loro mastodontici muli da traino armati di fucili, pattugliano le campagne, le strade i paesi, non hanno alcun timore. Non hanno più nulla da perdere perché hanno gia perso tutto.
È in questo periodo, in questi anni che le figure di Giuseppe Di Vagno e Giuseppe Di Vittorio giganteggiano. Corrono insieme sui luoghi degli scontri per sedare gli animi e spesso la loro capacità di mediazione, la loro buona fede, la loro indole pacifica riesce ad evitare il peggio. Contadino e figlio di contadini Di Vittorio, borghese e figlio di un proprietario terriero Di Vagno. Una strana coppia, due uomini in una terra dove la diversa condizione sociale conta più che altrove, si trovano a condividere gli stessi ideali e a lottare per migliorare le condizioni di vita della gente di Puglia.
Ma il peggio deve arrivare e arriva nel 1921.
Il segnale che la situazione generale è destinata a peggiorare, arriva proprio dai socialisti. Il 15 gennaio si apre a Livorno il XVII Congresso del Partito. Le posizioni fra riformisti e massimalisti sono inconciliabili e il partito si divide in tre. Nascono così i socialisti riformisti, i comunisti unitari e i comunisti. Le prime due correnti restano nella stessa casa, i comunisti che si riconoscono in Antonio Gramsci, abbandonano il congresso e fondano il Partito Comunista Italiano con conseguenze gravi, specie fra Unitari Comunisti che cominciano a ‘beccarsi’e a darsele di santa ragione. Erano posizioni di principio e tuttavia anche dopo la scissione, il Partito Socialista resta nelle mani dei massimalisti Enrico Ferri e Arturo Labriola favorevoli alla rivoluzione sociale anche con la violenza.
Neppure un mese dopo la scissione, la Puglia è di nuovo in fiamme.
Nel pomeriggio del 23 febbraio a Bari, nelle vicinanze della Camera del Lavoro nella città vecchia, in uno scontro tra fascisti e socialisti resta ucciso un giovane contadino. Il giorno prima il Parlamento aveva approvato un aumento dell’imposta sul vino, che pur danneggiando l’industria vitivinicola, avrebbe avuto conseguenze gravi sull’occupazione.
La morte del contadino riaccende gli animi e la stessa sera la Camera del Lavoro proclama uno sciopero generale provinciale di tre giorni. La protesta dilaga. I campi, le strade, le piazze gli ingressi di tutti i paesi pugliesi sono presidiati da una o dall’altra fazione, sono luoghi di provocazioni e scontri fra contadini socialisti e comunisti e squadre armate di fascisti che appoggiano gli agrari. È un massacro. Il 25 febbraio si contano i morti. Solo a Minervino si registrano 6 vittime, diverse decine di feriti e l’incendio di 11 masserie; a Cerignola, il paese natale del futuro gerarca fascista Giuseppe Caradonna e di Giuseppe Di Vittorio, ci sono 2 morti, diversi feriti e altre masserie incendiate compreso lo stabilimento vinicolo della famiglia Caradonna in località San Marco.
Dopo l’incendio di altre Camere del Lavoro, in diversi centri della provincia, gli scioperi andavano esaurendosi quando nelle prime ore del mattino del 25 febbraio il centro agricolo di Conversano è totalmente bloccato. «Diversi gruppi organizzati provviste di mazze nodose, randelli e scure – si legge nella cronaca del Corriere – tenevano in custodia le uscite del paese impedendo ai contadini ed ai proprietari terrieri di portarsi in campagna».
Più tardi viene imposto a tutti i servizi pubblici, compreso la farmacia, di abbassare le saracinesche. Lo scontro è nell’aria e prima di mezzogiorno esplode. Nel parapiglia fra fascisti, comunisti e socialisti e fra lanci di pietre e bastonate, appaiono le armi. Colpi di pistola, fucilate, perfino due bombe. Immediatamente piazze e strade si svuotano e sulle lucide basole di pietra lavica restano diversi feriti. Il più grave è il tenente Carcaterra responsabile della locale Commissione per la requisizione dei cereali che il governo vorrebbe sotto il suo controllo.
È un caso? Forse.
Resta il fatto che quel giorno Giuseppe Di Vagno non è in paese altrimenti al corrispondente del Corriere non sarebbe sfuggito.
Ma Di Vagno, in altri tempi apprezzato anche dagli avversari politici per le sue particolari qualità di mediatore, era diventato un personaggio ingombrante in un paese dilaniato da contrastanti interessi di classe. E dunque, pur assente, gli viene attribuita la colpa morale degli avvenimenti di quel giorno. Perciò, per motivi di ordine pubblico, gli viene vietato di soggiornare a Conversano, nel suo paese, dove vive da sempre la sua famiglia.
È messo al bando insomma come si fa con i criminali. Di Vagno rispetterà il divieto per evitare altre conseguenze ai suoi concittadini e non di meno il 9 maggio la Camera del Lavoro cittadina è saccheggiata e incendiata.
Il 28 febbraio, intanto, la protesta esplode in Toscana. Lo sciopero dei ferrovieri provoca scontri furibondi e in due giorni si contano 20 morti, 14 solo a Firenze, e 150 feriti. A marzo Giovanni Giolitti getta la spugna e il 7 aprile il Re firma il decreto che scioglie le Camere. Le nuove elezioni generali sono indette per il 15 maggio e questa volta nella lista dei socialisti unitari per la circoscrizione di Bari-Foggia c’è anche il nome di Giuseppe Di Vagno.
La competizione politica si svolge in un clima da guerra civile. Fra scioperi, manifestazioni sindacali e politiche i fascisti fanno del loro meglio per intimidire tutti. È un massacro. Prima che si arrivi alle urne si contano 166 vittime, centinaia di feriti, 726 sedi di partito e sindacali devastate. Solo in Puglia sono incendiate e distrutte le Camere del Lavoro di Lecce, Taranto, Minervino, Terlizzi, Ascoli Satriano e Matera.
Il 15 aprile intanto, Giuseppe Di Vittorio, anche lui candidato nelle liste dei socialisti unitari, dopo uno scontro con i mazzieri di Caradonna nella natia Cerignola, è arrestato e rinchiuso nel carcere di Lucera.
Un mese dopo, il giorno delle elezioni, Cerignola diventa un campo di battaglia. Gli uomini di Giuseppe Caradonna bloccano tutti i seggi elettorali: chi non dichiara esplicitamente di votare per il Blocco Nazionale, la lista che include i fascisti, è allontanato a manganellate. Comunisti e socialisti tentano di forzare l’ingresso ai seggi e, fra bastoni e manganelli, si passa alle armi. Il bilancio della giornata elettorale è di 9 morti e decine di feriti, ma su 10.119 elettori solo 3.309 sono riusciti a mettere la scheda nell’urna.
Il Blocco Nazionale vince le elezioni, ma i fascisti vantano un ben magro bottino, hanno ottenuto solo 35 seggi. In Puglia, invece, nonostante l’ostruzionismo e il completo oscuramento di nomi e di liste diverse dal ‘Blocco’ del più diffuso quotidiano pugliese, Giuseppe Di Vagno è eletto con 74.602 voti, Giuseppe Di Vittorio con 71.260.
L’insoddisfazione dei fascisti per il magro risultato elettorale si sfoga nelle piazze che tornano ad incendiarsi.
Il 30 maggio Di Vagno, quale nuovo deputato del Regno, torna a Conversano. Vuole vedere la moglie che è in attesa di un bambino, vuole ringraziare i suoi elettori e soprattutto vuole tentare di ricucire un rapporto umano con quanti, pur oppositori politici, restano sempre suoi concittadini un tempo rispettati e rispettosi. Ha in animo di realizzare, lui per primo nella piccola comunità conversanese, quel ‘patto di conciliazione’ di cui si parla a livello nazionale.
Ma il clima è teso. Il numero delle braccia conserte è troppo alto, il lavoro, che porta la serenità nelle famiglie manca, i cuori sono inariditi. L’odio è quasi palpabile per le angherie subite e provocate, per il crescente disagio sociale. Molti militanti socialisti e fascisti girano armati.
Di Vagno arriva alla stazione di Conversano alle 5,30 del pomeriggio. Accolto da un gruppo di compagni, si dirige verso la piazza centrale del paese. Durante il tragitto si forma un piccolo corteo. Giunto in piazza, pronuncia un breve discorso di ringraziamento e non manca d’invitare tutti alla calma. Poi, sempre seguito da amici e ‘compagni di fede’ si avvia verso la sua abitazione.
Arrivati in prossimità del Castello la piccola compagnia viene fatta segno di ripetuti colpi di rivoltella partenti da diverse strade laterali. Gli accompagnatori di Peppino Di Vagno rispondono al fuoco degli assalitori inseguendoli. Qualche minuto dopo, nelle strette vie vicine al Castello, vengono rinvenuti 11 corpi. Due di loro muoiono in serata. Erano del socialista Cosimo Conte e di un ragazzo fascista di 16 anni, Emilio Ingravalle.
Il giorno dopo Di Vagno invia una nota al Corriere escludendo che l’agguato fosse nei suoi confronti… «i contadini che sono rimasti feriti sono stati vittime di un preordinato agguato fascista e di teppisti locali e forestieri».
Forse non era lui l’obiettivo della sparatoria o forse, com’era nella sua indole, con quella nota ha voluto stemperare il clima pesante che si respirava in paese, ma ciò sottolinea maggiormente il livello di tensione in cui si vive anche nei piccoli centri. E che, dopotutto, i provocatori non erano i soliti socialisti e comunisti, lo testimonia lo stesso direttore del Corriere, Leonardo Azzarita, che in un editoriale del 31 maggio scrive « riteniamo sia giunto il momento di parlare chiaro e forte ai fasci e ai fascisti non che sinora non l’abbiamo fatto. Non abbiamo mancato mai, anche durante il periodo elettorale, di dire alto e chiaro il nostro avviso, ed abbiamo deplorato più di una volta le violenze selvagge cui assistevamo e che non trovavano giustificazione alcuna». Un’affermazione non proprio veritiera, ma che dimostra la sua amarezza per essere stato strumentalizzato in buona fede. Prim’ancora della ‘Marcia su Roma’ i fascisti lo abbandonano e il 1° febbraio 1923 il Corriere delle Puglie cessa le pubblicazioni.
Intanto la situazione in Puglia è diventata più tragica che altrove. Le cause economiche e politiche che scatenano i conflitti sono aggravate dall’enorme disoccupazione, dagli atteggiamenti sempre più arroganti degli agrari, dalla distruzione dei vigneti per la grave siccità e per il continuo, deplorevole assenteismo del governo centrale.
La sera di venerdì 23 settembre 1921 mentre l’onorevole Di Vagno sale sul treno che da Roma lo porterà a casa, a Cerignola corre voce che una squadra fascista intende impedirgli di tenere alcuni comizi in provincia di Bari. Antonio Bonito della sezione socialista di Cerignola, allarmato e desideroso di avvertire il deputato di Conversano del pericolo che corre nei prossimi giorni, sale su un calesse e arriva a Foggia il mattino successivo giusto in tempo per vedere il treno entrare in stazione.
Di Vagno si è appena svegliato quando Bonito, stravolto per la lunga nottata in calesse, lo rintraccia e gli riferisce quello che i compagni hanno saputo a Cerignola. «E tu vorresti che io tornassi indietro e deludere i contadini di Mola che mi aspettano per inaugurare la loro bandiera? E credi che io lo faccia? Non aver paura, non mi accadrà nulla nemmeno questa volta».
Invece, questa volta, accade.
Di Vagno arriva a Mola il mattino di domenica 25 settembre. Alla stazione è accolto dai compagni della sezione socialista che gli mettono a disposizione una vettura per raggiungere Rutigliano dove in mattinata avrebbe tenuto un comizio. Ma avvertito che la riunione di Rutigliano è rinviata, torna a Mola dove pranza e riposa fino alle 16,30.
Quando dall’albergo scende in strada è atteso da una folla enorme di compagni socialisti, contadini, muratori e marinai che formato un lungo corteo lo scortano fino a piazza XX Settembre dove, davanti ad un semplice tavolo posto accanto al Caffè Roma, pronuncia un pacato discorso. Finita la cerimonia e inaugurata la bandiera della sezione socialista molese, la piazza si svuota e Di Vagno insieme a quattro, cinque compagni del paese costiero si avvia verso via Loreto – oggi via Di Vagno – dove lo attende una vettura per portarlo a casa, a Conversano.
Impegnati in una vivace discussione politica nessuno fa caso al un gruppetto di otto sconosciuti che li segue a poca distanza. All’improvviso uno di loro esce dal gruppo, si avvicina al parlamentare e gli esplode, alle spalle, due colpi di pistola. Subito dopo, gli altri compagni della squadra fascista, al solo scopo di creare confusione, sparano una trentina d’altri colpi e lanciano una bomba. Questa volta è proprio Di Vagno l’obiettivo. Tant’è che gli altri trenta colpi feriscono una sola persona, un passante, alla coscia mentre la bomba danneggia un portone.
Colpito alla regione lombare e sacrale Di Vagno crolla sanguinante sulle nere pietre laviche, si comprime il ventre con una mano e con l’altra si trascina sul marciapiede dove viene aiutato dalla proprietaria di un negozio. Bisogna aspettare i soccorsi. Ci vogliono minimo tre persone per alzare da terra il ferito e la lunga via Loreto è deserta. Solo la sua forte fibra riesce a tenerlo in vita fino all’arrivo dei paramedici che lo portano in ospedale dove viene operato d’urgenza.
Ma quanti corrono al suo capezzale sanno che i medici non nutrono speranze. «Peppino è pallido ma sereno – ricorda Giuseppe Di Vittorio – giace supino con gli occhi vivi ed appassionati. Sul viso aperto si legge chiaramente l’intimo tormento, gli atroci dolori che dilaniano il corpo insanguinato, avvelenato, ma non emette un lamento. Sembra voler combattere e vincere la morte con la stessa tranquilla serenità con cui ha combattuto e vinto le battaglie della vita».
Questa battaglia non la vincerà. Giuseppe Di Vagno si spegne alle 12,45 di lunedì 26 settembre. In serata la salma viene portata a Bari e deposta in una saletta dell’ospedale consorziale nella città vecchia dove, per tutta la notte, è meta di un interminabile pellegrinaggio di cittadini.
Il giorno dopo, nel percorso per raggiungere la stazione dove un treno porterà la salma a Conversano, un corteo senza fine, tutta Bari, gli rende l’ultimo omaggio.
«Quando il feretro è ancora nei pressi della chiesa di San Ferdinando la pioggia diventa violenta e spessa, ma nessuno abbandona il corteo, gli scrosci rabbiosi non valgono a vincere la resistenza, la volontà della gente, neppure delle migliaia di donne».
È già notte quando la salma viene sistemata nella saletta di prima classe della stazione in un tripudio di bandiere e fiori. All’esterno qualche lampadina elettrica dirada le tenebre fitte del piazzale, ma la gente rimane lì nei pressi dell’edificio per ore indifferente alla fitta, insistente pioggia.
Chi ha pagato per l’omicidio di Giuseppe Di Vagno? Nessuno. Né i mandanti, che la storia attribuisce ai fascisti di Giuseppe Caradonna, mazziere e gerarca di Cerignola; né l’esecutore materiale del delitto, Luigi Lorusso, un ragazzo di 17 anni di Conversano. Rinviato a giudizio per omicidio volontario dalla Corte di Appello di Trani il Lorusso ottenne l’amnistia prima di arrivare al processo.
Caduto il fascismo, di processo in processo il 22 marzo 1948 la Corte di Cassazione sancisce che il Lorusso non sparò per uccidere, che …«il delitto fu un prodotto delle circostanze» e che pertanto l’imputato è da ritenersi colpevole di omicidio preterintenzionale… «onde perciò, va applicata l’amnistia anche nei confronti del latitante Lorusso Luigi». Amen.