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Il terzo giorno del Bifest ci offre nel concorso dei lungometraggi la possibilità di ammirare visioni di città e storie in città e storie in città. Il percorso è fatto! Paolo Virzì è livornese gli spettatori italiani lo sanno e ha una bella moglie attrice forse non talentuosa ma apprezzabile nei suoi ruoli di comprimaria. Invece, nell’ultimo film dal titolo La prima cosa bella Micaela Ramazzotti, si supera e anche se risulta poco credibile come livornese doc – come d’altro canto Valerio Mastandrea, per il resto strepitoso – costruisce un personaggio comico e dolente che sa far emozionare e riflettere e sorridere della propria voglia caparbia di stare al mondo. Virzì canta Livorno, la maternità della sua terra, il rapporto con una terra che se si deve amare o odiare. Non a caso come un’altro autore livornese almeno in parte, Giorgio Caproni, egli cerca la madre e lo fa tornando alle origini. Il suo protagonista Bruno è costretto a tornare nella città dove è nato mentre la madre sta ormai per morire consumata da un cancro. I cadetti dell’Accademia Navale sono spesso presenti sullo sfondo così come l’acqua, elemento imprescindibile, che sia essa fontana o di mare assiste attivamente alle vicende degli uomini che se ne burlano e la amano. Lo sbocco del Fosso Mediceo, già noto per la vicenda legata al ritrovamento delle false teste di Modigliani è lì presente spesso quasi a ricordare che lì, in quella città niente è banale o scontato, nulla è come sembra ma può essere tante cose, perché la verità delle cose che sono non è mai netta, come la camicetta della madre del poeta Caproni, la camicetta ricercata e amata insieme al "vento popolare" che "sale ancora dal mare". Ed è nell’esaltazione del rapporto madre figlio che il film si chiude nel momento in cui l’acqua, madre, accoglie senza indugi la nuova compagna per il figlio che forse, ma questo non lo si racconta, potrebbe diventar padre. Eccellente risulta la scelta del cast attoriale affidata a Elisabetta Boni, Dario Ceruti e Lorenzo Grasso.Film molto farraginoso, appare, invece, quello di Saverio Costanzo, dal titolo La solitudine dei numeri primi che si è lasciato amare nel precedente lavoro, In memoria di me. Un solo elemento in comune con la pellicola del 2007, la presenza dell’attore Filippo Timi, che da solo seppur in un breve cammeo e vestito da clown risarcisce lo spettatore di 118 mininuti spesi a domandarsi quale sarà il punto di svolta del film, quale attore stia recitando peggio, perché le musiche siano una continua citazione di quelle dei film di Dario Argento, con che gamba stia zoppicando in realtà l’attrice Alba Rohrwacher e con quale Arianna Nastro che dovrebbero interpretare lo stesso ruolo da grande e da piccola. La pellicola sembra non volersi concludere mai e lascia anche per punire lo spettatore un finale aperto, da cinema horror, ancora più aperto di quello del libro da cui è tratto, l’omonimo esordio dello scrittore Paolo Giordano. Ma anche questo è il cinema italiano che assieme ottimi film partorisce talvolta dei mostri informi che tempestano nelle notti di pioggia, con vento e nebbia, in una magica come Torino, gli incubi di grandi e piccini, che cercano solo l’orario per capire quanti minuti mancano al termine di una tortura cinese. Ultimo film della 3° giornata del Bifest è Happy Family di Gabriele Salvatores. E’ l’ennesimo film in cui è protagonista uno sceneggiatore che non riesce più a fare film, o che non ci è mai riuscito, questo non è chiaro! Un divertente Fabio De Luigi cerca tutte le alternative di un possibile intreccio di personaggi che, come nei Sei Personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello, gli chiedono di descriverli stabilendo con loro una sorta di relazione connaturata alle loro esigenze vitali. Essi, infatti, sono lo specchio della crisi di idee in cui versa il narrare stesso e rappresentano tipi e stereo-tìpi di una realtà psicologica dei nostri giorni in cui alienazione, in-comunicabilità – o iper/comunicazione logorroica – la fanno da padrone a seconda degli specifici contesti. Ancora una volta in questo film di Salvatores – come ieri nel film di Avati – viene tracciato uno spaccato sociale che non ha nulla a che fare con la società reale in cui a farla da padrone è una sorta di medietas. I personaggi proposti sono altoborghesi con tratti di aristocrazia oppure – per contro – spiantati che non fanno i conti con esigenze reali di lavoro. Personaggi tutti fuori dal mondo che non possono rappresentare in alcun modo – neppure per via grottesca – ciò che accade di oggettivo e concreto nella società contemporanea. Questo avviene perché chi mette in scena le storie o le scrive ha perso il contatto reale con le cose di cui parla! Anche la satira di certi comportamenti acquista allora sistemazioni di comodo, troppo riduttive per essere delegate a rappresentare almeno in parte le cose che si criticano!