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La Commissione europea ha pubblicato uno screening dei siti web in merito ai messaggi relativi a profili di sostenibilità dei prodotti e servizi pubblicizzati, risultandone che oltre la metà dei «green claim» esaminati ha presentato segni di illiceità: il 40% a causa di affermazioni vaghe e generiche ed il 60% a causa della mancanza di dati ed informazioni a sostegno della fondatezza di quanto asserito.
«Tra le pratiche più criticate c’è anche il “carbon offsetting”, l’esternalizzazione delle emissioni attraverso una compensazione i cui effetti —soprattutto nel lungo termine— sono ancora tutti da dimostrare. In sostanza le aziende assicurano di compensare una certa quantità di carbonio emesso impegnandosi a “catturarne” altrettanto in un luogo diverso, ma spesso la misurazione del carbonio “catturato” è troppo generosa o comunque non certificata» sottolineano gli esperti di Ener2Crowd.com.
Certo è che in Italia è boom di «green claim», le dichiarazioni sulle presunte “qualità sostenibili” di un prodotto o di un’azienda. Ma lo scopo è sempre più spesso la convenienza economica delle aziende, ottenuta gettando fumo negli occhi di chi all’ambiente tiene davvero e non ha l’esperienza per capire l’inganno.
A quasi 40 anni dall’apparizione del neologismo «green washing», introdotto dal ricercatore ambientalista Jay Westerveld nel 1983, il problema è diventato oggi un fenomeno virale che è approdato anche a Sanremo, arrivando ad un target di 12 milioni di italiani che hanno ascoltato il grido «stop greenwashing» del cantautore Cosmo.
«Il problema è che il fenomeno è in continua evoluzione. In analogia con il termine “white washing” che ha caratterizzato gli anni di boom dei Titoli di Efficientamento Energetico e con il più recente temine “green washing”, assistiamo ora all’emergere del “risk washing”» avvertono gli esperti di Ener2Crowd.com, riferendosi ad iniziative in cui si propongono metodologie di finanziamento e di prestito direttamente tra privati e tipiche di quell’area nota come social lending o crowdfunding.
«Ma vi sono alcuni settori —puntualizzano i fondatori di Ener2Crowd.com— in cui la socializzazione dei prestiti rischia di mascherare un’assenza di assunzione di responsabilità da parte delle aziende. In particolar modo quello della transizione energetica, dove il ruolo di un’impresa non può essere solo quello di vendere i propri prodotti o servizi, ma deve generare e condividere valore, anche assumendosene il rischio, soprattutto se è legato alle persone».
Il fenomeno è sfuggente e sempre più difficile da contrastare. E se in altri Paesi sono stati fissati degli strumenti di misura del rischio —i primi ad introdurli sono stati gli Usa nel 1992 con un provvedimento dell’Agenzia di Protezione Ambientale ed il Regno Unito con uno specifico «Green Claims Code»— in Italia non è stato fissato alcun parametro.
Quando si parla poi di social lending si deve fare molta attenzione a quegli aspetti che potrebbero mettere a rischio il risparmio, magari nascosti da aspetti commerciali invitanti od opportunità comunicate come attraenti.
Il concetto di responsabilità in questo caso è essenziale. E vero è infatti che Ener2Crowd.com non esternalizza il rischio, selezionando sempre ogni operazione ed azienda con una procedura che esclude quelli che possano presentare un rischio non commisurato per l’investitore. La piattaforma ha addirittura creato un algoritmo per capire se un investimento è veramente «green», introducendo l’Indicatore di Sostenibilità d’Investimento (ISI), il primo indicatore ad hoc per il GreenVestor, da cui poi è stato ottenuto anche un «indicatore totale derivato», definito come quantità ideale totale di emissioni di CO2 che un’iniziativa green debba contribuire a ridurre per ogni euro ricevuto.