Tempo di lettura: 5 minuti
“Era una casa molto carina
Senza soffitto, senza cucina
Non si poteva entrarci dentro
Perché non c’era il pavimento…”
Il primo a stabilire una correlazione macabra quanto diretta fra una nenia infantile ed un presagio di morte imminente fu il maestro dell’orrore Dario Argento nel suo capolavoro “Profondo Rosso”.
A distanza di decadi, è Roberto de Feo a riportare in auge una narrazione profonda, dinamica, vivace e che insegna a saper guardare con occhio introspettivo anche ciò che ,se ben manifesto, appare come “ordinario”, “classico”, o come ripetono molto spesso gli spettatori tra le sedute del cinema a luci spente “già visto e rivisto”.
Fin dalle prime battute narrative lo spettatore si trova a chiedersi: quali sono gli elementi per una classica storia dell’orrore?
C’è gruppo di protagonisti diversi per etá, provenienza e personalità, con un recente passato sconosciuto e burrascoso e che spesso riaffiora tra i tormenti del presente portando lo spettatore ed empatizzare maggiormente con i protagonisti stessi.
Elisa è una giovane laureata che sta tornando a casa per un’operazione di interruzione di gravidanza e non sembra convinta della sua scelta, influenzata dal lavoro e dalle pressioni familiari. Fabrizio (Francesco Russo) è un pittoresco nerd amante del cinema, oltre che guidatore del servizio camper del gruppo, è oltremodo infantile, amante del web ed è solito registrare (indipendentemente dalle volontà altrui) i volti che accompagna a destinazione, tanto da meritarsi da Mark l’appellativo di “Chiara Ferragni” per l’insulsa volontà di registrare ed immortalare, piuttosto che vivere, il presente. Riccardo (Peppino Mazzotta) è un silenzioso e burbero medico con problemi familiari ed infine Mark e Sofia (Will Merrick e Yuliia Sobol) sono una coppia di fidanzati conosciutasi in America durante gli anni di studio e che si sta recando ad un matrimonio al sud Italia.
Svetta fra le performance l’eccezionale Matilda Lutz, che si conferma astro nascente di una cinematografia dal sapore internazionale che l’aveva vista coinvolta anche in produzioni oltre i confini nostrani (nel terzo capitolo della saga The Ring, ed in “Revenge”).
È proprio nella narrazione del folklore regionale italiano che De Feo costruisce una narrazione solida, affascinante e misteriosa.
Dopo un terribile incidente che manda fuori strada il camper del gruppo, i cinque si ritroveranno in una radura isolata, ben lontana dalla strada. Unico segno di vita? Una misteriosa e pittoresca abitazione che rimanda alla fiaba noir di Oz Perkins “Gretel ed Hansel” approdata nei cinema nell’agosto del 2020.
Sono morti? È tutto un sogno? È una visione onirica data da uno stato di immobilismo spazio-temporale dovuta all’incidente? A queste domande il duo De Feo- Strippoli non risponde, ma inserisce con maestria nella trama un mito dimenticato, ma quanto mai attuale.
Nella misteriosa abitazione ha il centro nevralgico un culto antico: quello di Osso, Mastrosso e Carcagnosso.
Tre uomini d’onore che nella Toledo del 1412 lavarono con il sangue l’affronto di un uomo protetto dalla Corona, che oltraggiò impunemente la sorella del trio.
Imprigionati dal Re, tra le strette pareti del carcere, i tre fratelli cavalieri fondarono un codice comportamentale che si basava sull’onore, sulla famiglia, sulla religione e la fede in Cristo, e su questo trittico sarebbe dovuta rinascere la società del futuro.
Terminato il periodo in catene abbandonarono la Spagna ed approdarono nel sud Italia.
Osso fondò Cosa Nostra in Sicilia, Mastrosso fondò l’N’drangheta in Calabria e Carcagnosso fondò la Camorra.
I popolo affamati che traviavano e “liberavano salvandoli dalla strada” ne divennero ben presto un gregge alienato e passivo, incapace di ribellarsi e complice di soprusi ed atti deplorevoli.
A De Feo il merito di aver trasposto in maniera allegorica nel film le caratteristiche che ancora oggi contraddistinguono la mafia: Osso, Mastrosso e Carcagnosso sono divenuti demoni che non vedono, non sentono e non parlano, stessi vincoli a cui il sud Italia è stato subordinato durante gli anni più duri e difficili dello scontro Stato-Mafia.
Dalla scoperta dell’altare si susseguono attimi frenetici, sirene (impossibile non pensare alla “Notte del Giudizio”) che annunciano la comparsa dei carnefici e dei loro adepti abbrutiti e privati della propria identità proprio dalla maschera, uno stratagemma classico del mondo dell’orrore e che fra costumi terrificanti ed una fotografia impeccabile ci fa dimenticare che “A Classic Horror Story” sia un’opera prima italiana.
Ma è tra le pieghe di una storia che omaggia giganti del passato e del presente come una dedica d’amore nei confronti del genere da parte del duo De Feo-Strippoli, tra cui Dario Argento, Sam Raimi, Tobe Hooper, Perkins, Ari Aster e Romero che si nasconde il vero significato più intimo e profondo di “a Classic Horror Story”.
Una critica alla società, agli spettatori, a coloro che anche solo guardando il trailer avrebbero pensato “è una semplice copia” o altre frasi fatte come “gli italiani non riescono a fare cinema, tantomeno il genere horror”.
Una critica alla pigrizia ed alla presunzione degli spettatori che affollano puntualmente le sale cinematografiche per i cinepanettoni, ma sono sempre pronti a puntare il dito sfiduciando opere ben più profonde, inusuali e peculiari.
De Feo e Strippoli dedicano a loro il fulcro della narrazione ed i due finali: quello esplicito con Elisa, che sanguinante e sofferente giunge su una spiaggia affollata in cui le persone preferiscono fotografarla per i social piuttosto che aiutarla e quello nascosto dietro i titoli di coda che mostra l’altra faccia del consumismo nell’era di Internet, quello nascosto, sepolto sotto i motori di ricerca tradizionali ed accessibile tramite deep web e dark web.
Quello in cui il sangue, la violenza, la brutalità sono gli unici espedienti narrativi, perché “fare cinema in Italia è complicato, se non sei uno youtuber o un influencer”.
Quella di “A Classic Horror Story” è una critica forte e consapevole alla profonda massificazione che il cinema italiano sta vivendo.
Spesso definito incapace di andare oltre i classici della commedia ed i soliti volti noti, con Roberto De Feo, il nostro cinema torna a sentire il respiro internazionale che un film profondo come “A Classic Horror Story” merita. La malinconia che permeava il precedente capolavoro del regista barese “The Nest” lascia spazio ad una riflessione amara, ad uno specchio della società moderna.
Arrivato su Netflix il 14 luglio con un lancio globale, l’obiettivo è chiaro: rendere consapevoli che l’arte non ha padroni, va interiorizzata prima di essere giudicata, e che finché le influencer ed i fenomeni del web avranno un peso più influente rispetto agli artisti puri e compiuti il reale film dell’orrore sarà solo il nostro quotidiano…
Alarico Lazzaro
Voto 9/10