Tempo di lettura: 3 minuti
La splendida Piazza Cattedrale bitontina, situata nel centro storico, è stata, ancora una volta, la location che ha ospitato la X edizione del Beat Onto Jazz Festival, ormai noto evento musicale organizzato dall’Associazione InJazz sotto la direzione artistica di Emanuele Dimundo. L’evento è stato introdotto dal critico musicale Alceste Ayroldi.
Protagonisti indiscussi della terza serata del Beat Onto Jazz Festival sono stati Salvatore Russo Gypsy Jazz Trio e Stochelo Rosenberg. Salvatore Russo, chitarrista di grande talento, è figlio della terra pugliese ma da tempo ormai si è affacciato sul panorama della musica internazionale in virtù del suo talento e della sua creatività, collaborando con molti dei più grandi artisti italiani e stranieri.
Rosenberg è il leader dell’omonimo trio di cui fanno parte anche i suoi due cugini Nonnie e Nous’che: questo ensemble si è fatto strada nel genere “gypsy jazz” fino a conquistare la meritata fama rievocando la musica di Jjango Reinhardt.
Il sodalizio artistico di questi due grandi chitarristi ha portato alla realizzazione di un album, “La Touche Manouche”, pubblicato dalla Saint Louis Jazz Collection e distribuito dalla Egea Records. Questo album vuole celebrare il centenario della nascita di Jango Reinhardt: il 23 gennaio del secolo scorso, infatti, venne al mondo colui che sarebbe stato di lì a poco l’ideatore ed il massimo esponente del genere “jazz manouche”. Egli seppe accostare sapientemente il jazz tradizionale agli inconfondibili ritmi della tradizione gitana. Per i profani della materia, per “gypsy jazz” s’intende quello stile musicale melodico cadenzato che presenta delle similitudini con lo swing americano degli anni Venti-Trenta: entrambi si svilupparono nello stesso periodo ma hanno origini ben diverse. Reinhardt è stato il primo a creare un particolare tipo di jazz che si discosta da quello classico made in U.S.A. Il “gypsy jazz”, noto anche come “jazz manouche” o “gypsy swing”, si rifà alla tradizione zigana. È un viaggio a ritroso, il cui tempo è scandito dalle note del pentagramma. Questo genere musicale è tenacemente legato alla tradizione manouche, chiusa nel rigore della tecnica, nello splendore della sua particolare espressione melodica, fedele a se stessa, immutabile nell’inconfondibile peripezia dei virtuosismi nati da un’audace improvvisazione.
Russo e Rosenberg hanno ammaliato e conquistato il pubblico suonando alcuni brani tratti dall’album “La Touche Manouche” in cui si avvertiva la presenza del grande Reinhardt. Si assiste ad una sorta di sfida tra due chitarre e all’alternarsi in fieri di arpeggi e virtuosismi che non stancano mai ma che provocano nell’ascoltatore emozioni sempre vive. “Collaborare con Salvatore Russo è stato fantastico” dice Rosenberg. La loro amicizia nacque qualche anno fa nella patria di Rosenberg, l’Olanda; da allora hanno cominciato a suonare insieme in Italia. Proprio nella penisola, infatti, il grande chitarrista intende continuare a proporre questo particolare genere musicale affinché sia conosciuto ed apprezzato. “Mi piace molto suonare in Italia” ci dice. Anche Reinhardt, nel lontano 1949 venne qui in tournée suonando in alcune delle città più importanti dello stivale come Roma, Napoli e Milano. Emulo del suo maestro, Rosenberg mi spiega che anche lui trae ispirazione dalla penisola italiana e che lo vedremo spesso calcare i palchi di casa nostra per farci ascoltare la sua musica, connubio di tecnica ed armonia compositiva. E noi lo ascoltiamo volentieri.
Rosenberg ha cominciato ad impugnare la chitarra a soli dieci anni tirando fuori da quello strumento il gypsy jazz secondo lo stile inconfondibile di Django Reinhardt, il suo “hero”, come mi ha confessato durante l’intervista concessami prima della performance.
Sul palco allestito in Piazza Cattedrale a Bitonto, Rosenberg non distoglieva quasi mai lo sguardo dalle sue mani. Lo si vedeva così: occhi bassi, fronte corrucciata, dita che scivolavano armoniosamente sulle corde della sua Selmer 504 dalla quale veniva fuori, con prepotenza e vigore, un suono vivace ed intenso. L’abbiamo visto così e continueremo a vederlo ancora. Nel corso della nostra chiacchierata si notava la fierezza con cui parlava di Django e della sua musica e l’orgoglio di musicista seguace: sicuro di sé, sorridente, a suo agio in quella piazza, aveva dato ad intendere che quella sera avrebbe fatto ascoltare della buona musica e non ha affatto disatteso la promessa. Dictum factum.
Le foto sono di Lucia Ruggiero.