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“Tutti i dialetti sono metafore e tutte le metafore sono poesia.” (Gilbert Keith Chesterton)
“I dialetti sono eterni. Gesù parlava in dialetto. Dante scriveva in dialetto. Il Padreterno, in cielo, parla in dialetto.” (Libero Bovio)
Il professor Luigi Meneghello, nel suo capolavoro “Libera nos a malo”, affermava che “ci sono due strati nella personalità di un uomo: sopra, le ferite superficiali, in italiano, in francese, in latino; sotto, le ferite antiche che rimarginandosi hanno fatto queste croste delle parole in dialetto. Quando se ne tocca una si sente sprigionarsi una reazione a catena, che è difficile spiegare a chi non ha il dialetto. C’è un nòcciolo indistruttibile di materia apprehended, presa coi tralci prensili dei sensi; la parola del dialetto è sempre incavicchiata alla realtà, per la ragione che è la cosa stessa, appercepita prima che imparassimo a ragionare, e non più sfumata in seguito dato che ci hanno insegnato a ragionare in un’altra lingua.”, verità inoppugnabile – e talvolta inconfessabile – che ci è tornata alla mente mentre assistevamo a “È bal”, la produzione del Teatro delle Albe, unitamente a Ravenna Teatro, realizzata da Roberto Magnani e Simone Marzocchi su testo di Nevio Spadoni, giunta al Teatro Abeliano nell’ambito della annuale stagione dei Teatri di Bari e, nello specifico, della rassegna “To the theatre”, che gode della direzione artistica di Licia Lanera.
La storia di Spadoni racconta le umanissime vicende della vita di Ezia, trentaseienne dal seno prosperoso, fiore selvatico cresciuto in uno dei tanti terreni della provincia italiana e, nello specifico, di un paese della campagna romagnola, che la giovane donna è solita solcare in lungo e largo, conducendo una sorta di danza, un ballo (da cui il titolo dell’opera), che – si spera – possa alfine farle incontrare un uomo da maritare, anche se le esperienze negative vissute, in cui ha dovuto registrare anche un tradimento ed il successivo abbandono dopo ben sette anni di fidanzamento, non concedono molto spazio alle sue aspettative; e, infatti, gli anni passano, Ezia sfiorisce prima nel corpo e poi nella mente, si perde inseguendo i suoi ricordi infantili, forse ancestrali, quali la giostra di paese, ben presto trasformatisi in fantasmi, ed il suo ballo, al pari di quello demoniaco determinato dalle scarpette rosse di anderseniana memoria, si fa contorto e deviato, insano e malsano, delirante e affannato, alienato ed alienante, irrimediabilmente perso tra sogni ed incubi, al punto che pare essere ignaro del mondo che la circonda e, per questo, incomprensibile al resto dell’umanità che – ormai – l’ha relegata al ruolo di pazza e strega, lasciando che si consumi nella più assoluta e disperata solitudine.
Una fiaba senza principe azzurro e senza lieto fine, quindi, una storia comune, di ordinaria – e quasi familiare – follia, che molti magari avranno già sentito raccontare – magari in lingue diverse – dai propri nonni, che varia ad ogni nuova narrazione, assumendo contorni sempre più imprecisi, una di quelle storie che affollano il nostro passato più remoto, che ci parla di un mondo che non c’è e non ci sarà mai più, che non ha altra possibilità di essere rivelato se non grazie alla trasmissione orale, ad una sorta di eredità che ci viene lasciata da chi ci ha preceduto.
Nel volto e nella voce dello straordinario Roberto Magnani rivive questo piccolo mondo antico, con tutta la sua potenza arcaica, la sua realtà tragica e malvagia che da ghetto fisico in cui è proscritto si fa ghetto dell’anima; la sua performance è assolutamente convincente in tutta la sua forza drammatica, anche – e, forse, soprattutto – quando si trasforma, grazie anche all’efficace gioco di luci di Fagio, in Ezia, dalla voce metallica e rugginosa, così realista da farci tornare alla mente i volti dei “malati di mente” ritratti nelle inchieste giornalistiche realizzate in quei manicomi / lager che si aveva il coraggio di chiamare case di cura o finanche ospedali psichiatrici prima che intervenisse la legge Basaglia. La sua recitazione, per lo più volutamente asettica nella mimica, ha il suo apice nella musicalità della parola dialettale, che pur essendo, invero, a noi del tutto sconosciuta, ci giunge infine comprensibilissima ed emozionante, intenta, come auspicava Ernesto Giacomo Parodi, a “rivelarci il segreto di una parte di realtà che rimarrebbe misteriosa e celata”, tanto da rendere praticamente inutile l’apporto tecnologico dello schermo che ci svela una traduzione incompleta, che riporta solo i passaggi più importanti dello splendido, quasi in imitazione della pagina del televideo dedicata ai non udenti.
Il pubblico del Teatro delle Albe, invece, non può fare a meno di “sentire” quel brevissimo (in realtà forse troppo breve) racconto, di sentirlo dentro, nel profondo, ed il merito di tanto va sicuramente riconosciuto a Magnani ma anche al suo compagno d’avventura, lo strabiliante Simone Marzocchi, geniale musicista e compositore che alle prese con la tromba e con strumenti di sua creazione e da lui stesso realizzati assieme a Giovanni Cavalcoli, Fabio Ceroni, Danilo Maniscalco e lo stesso Magnani, ci consegna una colonna sonora inedita, elemento fondamentale di tutta la rappresentazione, pregna della sua interessantissima e personalissima ricerca sul suono, in questo caso soprattutto dell’anima sonora contenuta dal metallo, suggestiva come raramente ci è capitato di sentire. Le due “voci” di Roberto e Simone, unite in un unico afflato, non solo si fondono in una vera sinfonia ma realizzano appieno la dichiarazione d’intenti della creatrice del Teatro delle Albe, Ermanna Montanari, quando affermava che “il ferro è metallo fecondo e infernale insieme, principio attivo che apre la terra, è strumento satanico della guerra e della morte, ma è anche pietra guaritrice, il ferro è semplicemente metallo volgare, dialetto”.