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“La sinfonia è l’apoteosi della danza: è la danza nella sua suprema essenza, la più beata attuazione del movimento del corpo quasi idealmente concentrato nei suoni. Beethoven nelle sue opere ha portato nella musica il corpo, attuando la fusione tra corpo e mente.” (Richard Wagner)
Se ci è dato ipotizzare la presenza di un fil rouge nel più che accattivante programma del secondo concerto dell’annuale cartellone di musica sinfonica approntato dalla Fondazione Petruzzelli, ebbene non crediamo vi sia alcun dubbio che occorra far riferimento proprio alla danza. Le parole che Wagner dedicò alla celeberrima Sinfonia n.7 in la maggiore (op.92) di Ludwig van Beethoven (riportate in apertura di articolo) basterebbero a spiegare l’immensa fortuna di questa pagina di musica immortale, in cui il genio del compositore si lasciò conquistare da un’aria di ideale armonia e letizia, in un eccesso di stravaganza sconosciuto sino a quel momento nella sua produzione; par di comprendere, ascoltandola, che Beethoven avesse l’urgenza di rendere visibile, o meglio ‘udibile’, l’esaltato ed esaltante stato d’animo di un uomo che aveva risolto (o aveva creduto risolto) il proprio interno conflitto, lasciando che fosse la positività della vita a prevalere. Con tali presupposti non poteva che essere il ritmo a farla da padrone nell’intera Sinfonia, rendendone viva la melodia, incalzandone ed espandendone i tempi, sostenendola in ogni momento.
E l’esecuzione che l’Orchestra del Teatro Petruzzelli ne ha dato è stata eccellente, fresca, vivace, festosa, finanche gioconda, assolutamente fedele alle intenzioni del Maestro, merito dell’impeto e della passione con cui gli orchestrali affrontavano l’impegno ma anche della felicissima bacchetta di Jader Bignamini, che ha diretto con l’ardore della sua ancor giovane età ma anche con il vigore della già piena maturità espressiva. Medesime osservazioni valgono per l’Ouverture del Coriolano (op.62) che ha aperto la serata barese, un’altra delle creazioni di Beethoven per cui Wagner immaginò una elaborazione legata alla danza, ipotizzando che potesse “legittimamente essere considerata come l’accompagnamento musicale di un’azione pantomimica”, anche se, invero, gli appena sette minuti dell’ouverture si lasciano apprezzare soprattutto per il vigore che il suo autore riuscì ad imprimergli, a partire da quel caratteristico Do iniziale.
Discorso a parte merita la pagina che completava il concerto, vale a dire il Concerto in mi minore per violino e orchestra (op.64) di Felix Mendelssohn-Bartholdy, creato proprio per un virtuoso dello strumento, l’amico dell’autore Ferdinand David. Anche in questa opera è possibile rintracciare i caratteri della danza, soprattutto in quegli echi dai tratti folleggianti, capricciosi e pittoreschi che lo fecero risultare diverso da ogni composizione del suo tempo, segnando una svolta nel campo dei concerti per violino; questi aspetti, unitamente all’intuizione di collegare tra loro i tre movimenti, ne fecero il capostipite del concerto romantico, ancora oggi punto di forza dei repertori dei grandi violinisti, tra cui non è possibile non annoverare la splendida Isabelle Faust, alla cui perfetta esecuzione, pur non dimenticando l’ottimo supporto dell’Orchestra e del Maestro Bignamini, probabilmente si deve il momento più alto dell’intera serata, forte di un pathos reso tangibile, ripetuto anche nei ben due bis tra cui una sentita, quasi ipnotica, “Sarabanda della sonata in re minore per violino solo” di Bach e "Doloroso" di Gyorgy Kurtag.