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Diciotto racconti di scrittura frondosa ed elegante; questo è “Sei note di pentagramma”, scritto da Franco Leonetti, lessico ricco e costrutti fluidi che esaltano la linearità del dettato. All’interno di una struttura antologica, composta da storie apparentemente slegate le une delle altre, prende vita con colore d’inchiostro un’umanità varia e comune, ritratta alle prese con la propria quotidianità, più o meno regolare, scandita da una colonna sonora – vero e proprio fil rouge del libro – che cadenza il fluire narrativo declinando ritmi prevalentemente rock. La musica entra nelle vite dei personaggi di Leonetti come un protagonista inesorabile, un elemento in cui ci si imbatte prima o poi – che sia per scelta cosciente o per mero accidente poco cale – e non si riduce a semplice tappeto sonoro di sottofondo, ma anzi contribuisce a delineare contorni più nitidi nei personaggi scandendoli attraverso le diverse gradazioni del rock, sciolte in una caleidoscopica molteplicità di declinazioni.
La musica che informa di sé, pagina dopo pagina, il fluire dei racconti, non fa distinzione fra un registro “alto” ed uno “basso”: e così si può passare da una promessa della lirica, (il tenore protagonista del primo racconto, “Nella Gioia e nel Dolore”) ai raminghi cantori di strada di “Vita Randagia”.
Le immagini che Leonetti cesella in torniti fiotti d’inchiostro sono piene e rotonde, dotate di una loro poetica icasticità, caratterizzando personaggi a tutto tondo, come il protagonista del gustoso e salace “Honeytrap”.
Leonetti adopera uno stile descrittivo, d’un descrivere accorto alle minuzie, ma non per questo ripiegato su se stesso come una scrittura che s’imbamboli a rimirarsi compiaciuta. Anzi, forse un minimo di compiacimento c’è pure, nel padroneggiare un armamentario lessicale ampio e variegato, ma è peccato che si legge pregio.
Si diceva del fil rouge costituito dalla musica, partitura che ora emerge e si staglia come elemento costitutivo di un destino scritto fra le righe del pentagramma, ora appare quasi in tralice, come l’armonica appena evocata dal “soffiare il destino tra lame metalliche che si animano di suoni caldi” del già citato “Honeytrap”.
Ed è musica anche quella che s’affida alla partitura placida e naturale del crosciare di un corso d’acqua, colonna sonora della sottile vibrazione emotiva di “Un ruscello che scorre”, racconto che tocca corde emozionali con garbo e tenerezza, senza il sovraccarico di retoriche soverchie, ma anzi sfiorando l’arpeggio di accenti di delicata elegia.
Per poi variare radicalmente registro in “Scarification – La Pelle…”, racconto a tinte forti, crudo, incentrato sull’autolesionismo d’un ragazzo che tagliuzza il proprio corpo compulsivamente, che trova in Marilyn Manson il proprio guru e racconta, attraverso i tagli nelle carni vive, le lacerazioni dell’Io.
Col procedere dei racconti, lo stile comincia a farsi via via meno rigoglioso e più aderente alla sostanza che narra, fatta di tipi umani afferenti ad un’umanità usuale e dolente e che per questo suggeriscono una lingua più immediata, che non perde freschezza espressiva, pur calando di un tono.
Il registro narrativo vira poi verso il noir con “Epaminonda”, racconto che potrebbe facilmente essere epitome di quattro righe in cronaca dei nostri tempi (raccontate però dal punto di vista di chi ne è infelice protagonista).
“Balolenottero d’odio” sembra invece far sua una furba lezione di Cioran: quando ce l’avete con qualcuno, scrivetene male, vomitategli contro tutto il vostro livore e vi sentirete subito meglio. Una sorta di esercizio catartico che convoglia tutto il risentimento verso un oggetto ben preciso.
Un altro dei leit-motiv del libro è il vagheggiamento di un’età aurea per una generazione che ormai s’è vista scivolare addosso gli anni migliori – e che guarda caso hanno coinciso con gli anni migliori del rock – una generazione che ha se non frantumato, almeno ridimensionato e ricalibrato i propri sogni e le proprie aspettative e si ripiega in un melanconico ‘come eravamo’ (“Amarcord”, “Maledetto Night” col suo omaggio a Jim Morrison, “Stessa spiaggia stesso mare”, “Residence Gotha” col suo affresco generazionale di un’epoca pre-tecnologica in cui bastava davvero poco per divertirsi e bighellonare ad onta della noia).
Nel procedere dei racconti, ferma restando la linearità e la pulizia di scrittura, qua e là costantemente punteggiata da costrutti pregevoli stilisticamente che invitano l’occhio del lettore a soffermarsi, si fa largo una prosa meno sorvegliata e più colloquiale che ricalca gerghi ed idiomatismi propri del parlato e che purtroppo sovente incorre in qualche caduta ortografica che stride con la qualità complessiva della scrittura, il cui andamento progressivo digrada verso il minimale, conservando però una freschezza sostanziale che rende questo collage di racconti lettura gradevole.