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Quanto è difficile, oggi, rendere attraente un’incisione discografica senza l’ausilio della voce? Quanto è arduo esternare un sentimento senza l’uso delle parole? Quanto è problematico farsi conoscere e trovare spazi se si propone musica strumentale? Qui da noi molto. Soprattutto in tempi in cui la parola è il veicolo privilegiato dell’ego e un’idea risulta buona quando è espressa con tono vibrante. Ancora più difficile risulta la promozione di sola musica in epoca di talent show che sfornano improbabili cantanti. Esporsi come “semplici strumentisti” è difficile, dunque, ma non impossibile se la dote supporta talento ed espressività.
Alberto Milani detiene passione e tecnica che, attraverso la sua chitarra elettrica, lascia trasparire certificando virtuosismo compositivo ed esecutivo. Tra lick, scale e assolo funamboleschi il trentenne friulano propone Stories by the Bridge, raccolta di brani fusion che si stagliano in quella terra di mezzo fertile di improvvisazioni jazz, di asperità rock e di sporadiche tentazioni blues.
Da sempre ipnotizzato dal fascino della sei corde, Alberto Milani ha un passato da studente modello all’Accademia Lizard di Firenze e un presente condiviso tra il ruolo direttore artistico e quello di musicista. Tra l’incarico di curatore presso la Play School of Music di Pordenone e un percorso avviato da musicista (è anche nella band di Chiara Canzian), il chitarrista è riuscito a trovare il tempo per incidere un disco autografo di pregevole fattura. Undici brani strumentali che farebbero impallidire quella vasta schiera di chitarristi destinatari di fama e stima incondizionata.
Stories by the Bridge ha il sapore dell’impresa coraggiosa, sicuramente innovativa per l’asfittico panorama chitarristico italiano che, negli ultimi quarant’anni, non ha mai ricreato un ambiente adatto ad esprimere personalità di spicco (fatti salvi rarissimi casi).
Milani sfodera tutta la sua abilità anche quando deve reinterpretare la musica di qualcun altro, ovvero Lost di Wayne Shorter, o quando deve farsi gregario per cedere spazio al suo mentore Scott Henderson (Chick Corea Elektric Band), autorevole traghettatore degli a solo in Red Lights Trip e Moon Lament. Ma è tutto il gruppo – Paolo Costa al basso, Riccardo Fioravanti al contrabbasso, Giampaolo Rinaldi al piano e Giorgio Zainer alla batteria – a rendere l’album elitario. Il combo gratifica il circoscritto pubblico di estimatori della fusion, ma taglia fuori un mondo di possibili ascoltatori. Forse, nella stagione dominata dai talent, converrebbe barattare la propria vocazione con il pragmatismo, sulla scorta del dettame che impone di imparare la tecnica per poi poterla occultare. O forse fa bene Milani a cercare di smuovere le acque per incoraggiare un pluralismo culturale capace di differenziare l’offerta, e dare più spazio a chi intende la musica in maniera difforme dalle solite “canzonette”. Davvero notevole.