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Quando il Danubio incontra il fiume Sava, lì nasce Belgrado. Una città particolare, pervasa da un dualismo profondo. Camminando fra le strade si possono trovare scorci di un fascino incredibile, ma appena si gira l’angolo ce ne sono altri di un degrado desolante. Ci sono momenti che la città appare rinata completamente, altri nei quali si può immaginare il fumo degli incendi fra le vie. Si, perché i palazzi sono ancora neri, sporchi, fatiscenti (a terra, in contrasto, c’è una pulizia invidiabile), eppure Beograd, in cirillico Бeoгpaд, significa letteralmente città bianca! La parte vecchia e la nuova sono legate da un lungo braccio teso, un ponte tenuto da un pilone solo, con dei tenoni che sembrano vele. Ma nonostante tutto, in questo paese c’è qualcosa che attrae e lega. Mi sono ritrovata in un gruppo di rinomati fotografi e giornalisti provenienti da diverse parti del mondo, e per alcuni di loro ormai il Belgrade Jazz Festival è diventato un appuntamento fisso, perché qui il jazz si vive davvero, in un connubio fra tradizione e innovazione che soddisfa qualsiasi ascoltatore.

L’inaugurazione del festival si è svolta nel bellissimo auditorium del Sava Centar, un centro internazionale, culturale e commerciale di attività multifunzionali situato nella Nuova Belgrado. Prima sul palco la band serba Darkwood Dub insieme alla cantante storica di fama nazionale Bisera Veletanlić. Un inizio che può sembrare azzardato per un festival Jazz, perché quella che abbiamo di fronte è una delle formazioni alternative rock più famose del momento in Serbia, ma in realtà le proposte sonore dei Darkwood Dub si avvicinano spesso al nu Jazz e al trip hop, e arricchite dalla performance di una cantante tradizionale, offrono un incipit leggero ma di qualità. Lo stile a volte non eccelle in originalità, difatti molti sono i richiami sonori verso nomi celebri come Police, Moby o Massive Attack, ma la performance è gradevole e coinvolgente. Sul palco Bisera Veletanlić e Dejan "Vuča" Vučetić alla voce, Milorad "Miki" Ristić al basso, Bojan "Bambi" Drobac alla chitarra, Lav Bratuša alla batteria-percussioni e Vasil Hadzimanov alle tastiere.

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Cambio di palco e di stile con l’arrivo della band protagonista della serata. Wallace Roney alla tromba, Rick Margitza al sax tenore, Larry Coryell alla chitarra, Joey DeFrancesco all’ Hammond, Ralphe Armstrong al basso e Omar Hakim alla batteria, nel loro progetto Miles Smiles. Come ho già descritto nel mio precedente articolo che recensiva il concerto al Blue Note, in realtà questo progetto è una grande jam, fatta da sei grandi stars che interpretano Miles. Nulla da eccepire sulle performances dei singoli (in questa occasione ho apprezzato particolarmente Roney e Coryell) ma a differenza della serata nel club milanese, il concerto è stato più lungo, il che ha determinato diverse ripetizioni, rendendo il progetto poco strutturato. Altra differenza è stata determinata dal cambio di bassista: Ralphe Armstrong al posto di Victor Bailey. Entrambi sono nomi di grande rilievo e talento, ma fra Armstrong e il grande Hakim non c’è stato lo stesso dialogo e la stessa sintonia che ho trovato fra lui e Bailey.

Nello splendido foyer del teatro, ad accompagnare la pausa fra i due concerti, un piacevolissimo ensemble di dodici giovani sassofonisti (tra i 18 ei 34 anni di età) provenienti da dodici paesi diversi, diretti da Guillaume Orti  (European Saxophone Ensemble). Lo stile di ogni sassofonista era diverso da quello degli altri, ma ben assemblato nel gruppo, grazie anche alla scelta di repertorio (seppure alquanto difficile e articolato) fatta da Orti (Ronan Guilfoyle, Alan Hilario, Kari Ikonen, Ingrid Laubrock e Stéphane Payen).

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Anche se ormai è serata inoltrata, la notte del Jazz è ancora lunga e ci si sposta in un altro centro culturale, nel cuore della città vecchia, Dom Omladine, per una nottata dedicata alle impressioni balcaniche. Tutti gli altri concerti si sono poi svolti in questo centro. Il primo gruppo è Nenad Vasilic Quartet. Nenad Vasilic è uno dei musicisti jazz serbi più di successo a livello internazionale. Bassista, compositore e arrangiatore di Niš, ha studiato a Graz e ha continuato la sua carriera in Austria. La sua musica è estremamente particolare perché fonde due generi totalmente diversi, il jazz e la musica balcanica, donando al primo un’aria di freschezza e originalità, e alla seconda eleganza e delicatezza. Un risultato incredibilmente interessante. Oltre a Nenad Vasilic al contrabbasso e al Fender Jazz Bass, abbiamo Romed Hopfgartner al sax soprano e contralto, Marko Zivadinovic alla fisarmonica e Wolfi Rainer alla batteria.

A chiudere la serata i Blazin’ Quartet, quattro ragazzi che arrivano da Olanda, Svezia, Bulgaria, Serbia. Quattro diverse culture quindi, che utilizzano il jazz come filo conduttore fra i loro linguaggi espressivi. Il ritmo e la melodia cambiano e si evolvono in ogni pezzo, lasciando infiltrare a tratti cadenze latine. Da un amalgama liquida di rumori elettronici, emerge il suono puro degli strumenti, delineando i richiami nostalgici delle ballate tradizionali balcaniche. Un interessante viaggio nel quale viene coinvolto l’ascoltatore alla ricerca dei confini verso i quali i musicisti si stanno spingendo. Confini indefiniti appunto, che lasciano l’interesse vivo e sospeso. I protagonisti sono: Joao Driessen al Sax, Michael Rörby al trombone, Mihail Ivanov al basso e Srdjan Ivanovic alla batteria-percussioni.

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Inizio tanto atteso per la seconda serata, salgono sul palco due grandi virtuosi del jazz puro, quello con la J maiuscola, che non lascia spazio alle sperimentazioni o ai viaggi sonori, ma ci riporta alla purezza e al fascino del grande jazz. Con una personale interpretazione della musica di Wayne Shorter, Joe Lovano e Dave Douglas deliziano il pubblico con una performance ad altissimo livello. La riuscita di questo concerto però non è dovuta solo al fatto che loro siano un’ accoppiata vincente, ma anche alla scelta che hanno fatto di affiancarsi ad un maestro dell’avant-garde jazz, il batterista Joey Baron, e di dare spazio a due giovanissimi ed estremamente talentuosi musicisti, Lawrence Fields al piano e Linda Oh al contrabbasso. I due affascinano letteralmente il pubblico durante gli assoli. Le dita di Lawrence scivolano e si intrecciano generando un ribollire di suoni, per poi quietarsi in intime melodie. I suoni gravi del contrabbasso di Linda acquisiscono una ritmica così evoluta che da walking bass, durante gli assoli, si strasformamo in una sorta di "dancing bass", quasi stesse suonando un Fender, in perfetto dialogo con la batteria.

Anche qui, ad accompagnare l’attesa del cambio di palco (in questo caso del cambio di sala), una formazione orchestrale si esibisce nella hall del teatro. Si tratta della Backyard Jazz Orchestra, da un progetto del pianista Stefan Schultze, e del sassofonista Peter Ehwald, finalizzato a presentare il ricco patrimonio musicale dei Balcani in chiave jazz contemporaneo.

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Si passa dalla sala grande alla sala Americana del Dom Omladine, più raccolta e più simile ad un jazz club. Arriva un’altra formazione molto particolare e innovativa: Lorenz Raab Expanded. Quattro musicisti individualisti che passano da melodie pulite e intime a distorsioni deliranti del suono. Un continuo osare in percorsi creativi che vanno al di là dell’immaginazione. Abbiamo Lorenz Raab alla tromba, Eirik Hegdal all’inusuale sassofono "C Melody", Lucas Niggli alla batteria e il grande Michel Godard alla tuba, al serpentone e al basso. Raab si esprime quasi in sordina nei suoi assoli melodici, conferendo intimità al suono, per poi coinvolgere il sassofono o la tuba in un gioco eccitate e crescente di fraseggi che si tuffano in un’esplosione di suoni. Il ritmo è incalzante e a volte compulsivo ed è scandito dalla batteria di Niggli (che la suona con catene, tubi e aggeggi di vario tipo) e dalla tuba, dal serpentone o dal basso di Godard. I due conferiscono elasticità alla composizione, sferzando o trattenendo energia come se tirassero o rilasciassero una molla. I salti fra la delicatezza e l’estrema distorsione dei suoni porta l’ascoltatore in un viaggio estatico, quasi allucinogeno…

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Salto totale verso un’altra espressione del Jazz, il Latin Jazz, per l’ultimo concerto della serata. Ci aspettavamo di vedere Jerry Gonzalez con El Comando de la Clave, ma Jerry ha avuto dei problemi di salute ed è stato sostituito dal giovane e bel sassofonista cubano Inoidel Gonzalez, che ha magistralmente tenuto testa alle aspettative del pubblico, garantendo la riuscita della serata. Il ritmo era avvolgente ed entusiasmante. Le sonorità latine si mischiavano al Jazz con estrema vivacità ed eleganza. Il pianoforte del cubano Javier Masso “Caramelo” si avventurava in un gioco intenso e ardente, mentre il flamenco si insinuava nella voce e nel basso dello spagnolo d’adozione (di origine cubana) Alain Pérez e la batteria di Kiki Ferrer si districava fra le ritmiche jazz e latine.

La terza serata prende inizio con un giovane artista americano che ha fatto parlare molto di se quest’anno in Europa, partecipando a tutti i più grandi festival del continente. Ambrose Akinmusire, nominato "il trombettista dell’anno", affascina qualsiasi platea. La sua tromba stride e languisce, freme e fluttua, invade il suono e si ritrae morbida. La conoscenza approfondita che lui ha della musica gli permette di esprimersi in avventure stilistiche al tempo stesso in interpretazioni ricche di aderenze armoniche tradizionali. Il sassofono di Walter Smith III si espone in assoli virtuosi per poi intrecciarsi nel linguaggio espressivo di Ambrose. La batteria di Justin Brown, attraversa percorsi tortuosi per poi gettarsi ed espandersi in un oceano di risonanza. Il tutto condito con le sonorità profonde del basso di Harish Raghavan e il gioco frivolo del piano di Sam Harris. Un’esperienza musicale che registra, ovviamente, il tutto esaurito.

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Altro interludio orchestrale nella hall del teatro, questa volta tenuto dall’orchestra serba della Mizic School Stankovic Jazz Department. Rimane sempre affascinante questa scelta organizzativa che regala la possibilità di esprimersi a giovani talenti del jazz.

Nella sala Americana arrivano i Das Kapital, gruppo formato dal sassofonista tedesco Daniel Erdmann, dal chitarrista danese Hasse Poulsen e dal percussionista francese Edward Perraud. I cultori del jazz tradizionale sono usciti coi capelli ritti dalla sala, ma io sono rimasta incuriosita e divertita. Decisamente non mi sono pentita della mia scelta perché si è rivelato un gruppo estremamente interessante, invaso di un’adrenalina coinvolgente, e affetto da una follia geniale. Un miscuglio tra rock, pop e jazz, colorato di elettronica e musica classica, e anche a volte un po’ di ska. Uno spettacolo anche visivo, grazie alle invenzioni funamboliche del batterista, che suonava i piatti con un archetto rudimentale o li faceva saltare per aria. Anche il chitarrista ha usato un’archetto sulla chitarra!

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La sala è gremita di gente per l’ultimo concerto della serata. Sale sul palco Ursula Rucker. Non solo una cantante (funky, soul, hip-pop e nu Jazz) sofisticata e sensuale, ma anche e soprattutto una poetessa. Le parole diventano protagoniste quanto la musica. I messaggi sono diretti, forti e potenti, ma il modo di esprimerli è sussurrato e ammaliatore. La voce è calda profonda e delicata al tempo stesso, ma sa anche emergere in un groove grintoso, ed articolarsi in diversi generi. Ursula rntra un po’ in una categoria di artisti, come Eryka Badu o Michael Franti, che esprimo contenuto e passione sia con la musica che con le parole e in questa maniera entrano diretti nel cuore della gente e muovono le masse. Al fianco di Ursula, Timothy Motzer alla chitarra e Gintas Janusonis alla batteria-percussioni.

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A malincuore sono tornata in Italia la domenica pomeriggio e mi sono persa l’ultima serata che ha visti protagonisti: Jovan Maljoković (con Balkan Salsa Band e Ana Sofrenovic), un sassofonista, compositore e arrangiatore, fra i più produttivi della storia del jazz serbo che combina jazz con il folklore dei Balcani e della musica cubana; il jazz improvvisato di Mikołaj Trzaska e Rafał MazurMostly Other People Do the Killing e per finire lo stravagante, provocatorio, estroverso gruppo Ibrahim Electric’s.

Da segnalare le due bellissime mostre fotografiche, entrambe di fotografie di Jazz, situate in Dom Omladine. Nei pressi della sala Americana: Balkanske Impresije (una serie di fotografie ritratte da una fotografi serbi). Nella hall principale: "10×3 (+3)=Jazz Greetings from Italy", una mostra divisa in due sezioni, una dedicata ad jazzisti internazionali ritratti ad Umbria Jazz, l’altra a jazzisti italiani. Entrambe le sezioni espongono tre punti di vista differenti, in quanto ritraggono gli stessi soggetti attraverso gli occhi e la macchina fotografica di tre diversi fotografi di Jazz: Adriano Scognamillo, Tim Dickeson (Wales) e Yasuhiro "Fiji" Fujioka.

Dopo questi tre giorni di full immersion nel jazz, credo proprio di poter dire che il Belgrade Jazz Festival potrebbe diventare un appuntamento fisso anche per me!

Foto di Mariagrazia Giove, riproduzione riservata.

Mariagrazia Giove