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Lo stato in cui versano (in alcune esperienze sarebbe appropriato dire ‘languono’) le ‘democrazie’ degli Stati contemporanei mi spinge a ritenere che sia indilazionabile approfondire, attraverso una riflessione articolata e prospettica, cosa sia oggi la ‘democrazia’ e quale, in futuro, potrebbe essere l’assetto auspicabile per le società e gli Stati.
Già piú volte mi sono soffermato sulla crisi che appare quasi inarrestabile della condizione in cui versano le ‘democrazie’.
Invero, le società oggi, specialmente nel cosiddetto ‘Occidente’, sembrano in crisi inconvertibile sia sul piano organizzativo sia su quello economico e soprattutto su quello dei ‘valori’ (religiosi o laici, che siano).
In Europa centro-mediterranea ci si era illusi che la creazione dell’organismo sovranazionale, della Comunità ed ora dell’Unione d’Europa, fosse la soluzione del ‘problema’. Invece non solo si è rivelata inadeguata, ma sta finendo per diventare essa stessa grande o comunque parte del problema.
Uno dei nodi principali è costituito dall’estraneazione dei singoli rispetto alla gestione della politica, sempre più appannaggio di oligarchie1.
Il problema risiede nell’aver proceduto alla costruzione di una Entità, che aspirava da un lato a superare le divisioni articolatesi intorno al concetto di ‘nazione’ dall’altro a proporsi come referente diretto per i singoli, senza un’approfondita riflessione sul ‘modello’ da adottare. Tale riflessione avrebbe evidenziato la necessità di operare scelte precise, che, invece, non si era in grado di compiere.
Sta di fatto che oggi la crisi sembra incontrovertibile e che per scongiurarne le conseguenze si adottano soluzioni provvisorie e parziali, dalle quali spesso nascono illusioni destinate a cadere dopo il volgere di pochi anni.
Il mancato superamento del distacco esistente tra governanti e governati rimane immutato e, anzi, tende a crescere. Ciò mi spinge a ritenere che esso sia conseguenza dell’assenza di un’avvertita riflessione progettuale sul ‘modello’ organizzativo più consono alle necessità del presente, che non può essere supplito con provvedimenti e/o istituti mirante a far fronte all’emergenza.
Il dibattito, quando c’è, è portato avanti dai ‘politici’ ed è frammentario, episodico ed umorale, mancando un riflessione organica e prospettica. Non di rado è rissoso e confuso.
Faccio un esempio, centrale per la vita di un ordinamento (nazionale o sovranazionale): la Costituzione. In Europa manca ed è surrogata dal Trattato di Lisbona.
Non meno grave mi sembra l’assenza di disposizioni organiche su uno dei nodi (che in passato aveva arrovellato, dando vita a dibattiti animatissimi) i pensatori ed i riformatori: quello del controllo del potere2.
Da siffatta presa d’atto mi pare sia motivato l’interrogativo su quali soluzioni potrebbero essere piú congrue ai problemi del presente.
In questa prospettiva può rivestire un ruolo ed un monito significativo la consapevolezza raggiunta dagli antichi, i quali misero in luce la necessità delle organizzazioni politiche (le póleis e le civitates) perseguissero continui adeguamenti rispetto alla realtà cangiante della vita umana.
Esponente principale e fondamentale delle visioni che, da tale percezione fu Polibio; il quale forgiò la categoria dell’anaciclosi (in greco: ἀνaκύκλωsις, anakýklosis) delle Costituzioni; la quale è una teoria dell’evoluzione ciclica dei regimi politici che man a mano deteriorandosi, si susseguirebbero secondo un andamento circolare nel tempo e, giunti all’ultimo stadio, ritornerebbero alla forma iniziale di partenza riprendendone lo sviluppo, secondo un processo naturale per cui le costituzioni necessariamente si trasformano, decadono, ritornano al tipo originario3.
Soltanto un modello, agli occhi di Polibio, poteva dirsi perfetto: quello romano4.
La visione del continuo mutamento delle costituzioni ebbe una feconda rilettura da parte del Machiavelli, che vi scorgeva non una sequenza naturale, bensí la determinazione del destino, osservando che il cerchio della storia non può interrompersi, perché “questo è il cerchio nel quale girando tutte le republiche si sono governate e si governano: ma rade volte ritornano ne’ governi medesimi; perché quasi nessuna republica può essere di tanta vita, che possa passare molte volte per queste mutazioni, e rimanere in piede. Ma bene interviene che, nel travagliare, una republica, mancandole sempre consiglio e forze, diventa suddita d’uno stato propinquo, che sia meglio ordinato di lei: ma, posto che questo non fusse, sarebbe atta una republica a rigirarsi infinito tempo in questi governi”5.
Guardando all’oggi, si può notare come, invece, la consapevolezza del continuo mutamento abbia lasciato il posto alla convinzione della bontà della cosiddetta democrazia rappresentativa; tanto che le potenze occidentali e, con esse, l’onu pretendono di imporla a tutto il pianeta.
Il che causa effetti spesso funesti e illusorî, lasciando spazio a dittature piú o meno mascherate e ad oligarchie sia politiche che finanziarie.
Perciò ritengo che occorra reagire, partendo dal chiederci quando e come si è affermato l’odierno modello di ‘democrazia’ e cosa non funziona piú o in modo soddisfacente.
Questa esigenza appare indilazionabile, dinanzi al fatto che si è generato “un pessimismo duro e compatto come una lastra di piombo. Il futuro non è piú quello di una volta, diceva il poeta Valéry. Oggi lo dice, pressoché all’unisono, il popolo … Nessuna autorità, sia civile sia politica, riscuote più il consenso del popolo … serve una terapia d’urto, non basterà qualche aspirina. E la crisi di libertà, di giustizia, d’efficienza, di legalità che si è rovesciata sull’Italia è altrettanto micidiale d’una guerra, perché ha corrotto il nostro tessuto connettivo, il nostro paesaggio umano, cosí come le bombe devastano il paesaggio naturale”. Perciò occorre intervenire “Rompendo il potere delle corporazioni, delle camarille, delle lobby, che sono un ostacolo all’affermazione dei migliori. Ma al tempo stesso rompendo il potere dei partiti, restituendo lo scettro ai cittadini, innervando la democrazia rappresentativa con un’iniezione di democrazia diretta”. Per fare ciò bisogna ridisegnare il modello, partendo dal passato, perché “il rimedio era stato individuato nei secoli scorsi dai nostri antenati, per poi cadere nell’oblio: l’esperienza dell’antica Grecia può ancora impartirci una lezione”. Comunque occorrono rimedi radicali, che devono partire dallo smantellamento di quanto non ha funzionato, fossero anche le leggi; riguardo alle quali occorre riandare a quanto disse Voltaire, il quale, ricordando che “Londra divenne una città ordinata dopo che un incendio la ridusse in cenere, obbligando i londinesi a ridisegnare strade e piazze”, preconizzò un cambiamento radicale, che partiva dal mutamento delle leggi: “Volete buone leggi? Bruciate quelle che avete, e fatene di nuove”6.
Come procedere?
Personalmente partirei dal dibattito e dalle scelte sugli assetti degli Stati contemporanei, che affonda le radici nelle scelte di Montesquieu e Constant, che scelsero, vincendo, il modello Inglese contro quello della Repubblica romana, proposto da Montesquieu e radicalizzato da Babeuf, il quale si appellava all’essenzialità del TRIBUNATO, fondando anche il giornale Le Tribun du Peuple, ou Le Défenseur des droits des l’hommes, perseguendo una visione partecipativa ed il controllo del potere durante l’esercizio.
Va tenuto presente che il modello prevalso, della democrazia rappresentativa, era desunto da una Inghilterra dove vi era un Parlamento diviso tra i latifondisti aristocratici (Camera dei Lord) e i cittadini delle città e dei villaggi non feudalizzati, ad esempio gli appartenenti alle corporazioni artigianali, i borghesi e i piccoli proprietari (i Comuni) ed era un ‘modello’ per la Monarchia. Inoltre era incentrato intorno ad una visione economicistica e non di valori; il che portò Hobbes, nel sec. XVII, a teorizzare il primato dell’economia, che ha avuto tanta fortuna, ad esempio nel leninismo e, in fondo, nella stessa politica dell’UE.
C’è da chiedersi se quel modello fosse veramente adatto alla Repubblica e, soprattutto, sia attuale oggi.
La questione del ‘Potere’ fu esorcizzata da Montesquieu teorizzando il bilanciamento attraverso la ‘divisione dei poteri’. Esso si è dimostrato inefficace (ad es. nella Ue, attraverso i ‘regolamenti’, è la Commissione a legiferare, cosí come legifera la Corte di Giustizia, i cui deliberati sono vincolanti. I decreti legge e l’abuso del ricorso alla ‘fiducia’ riducono il Parlamento a mero organo di ratifica.
Inoltre oggi i Parlamenti non hanno piú la centralità e le competenze avute in passato. Vi sono, infatti, settori vitali che sfuggono ai parlamenti e, in gran parte, anche all’Esecutivo: le finanziarie e le società che operano nel digitale o in servizi fondamentali (si pensi a Google, Facebook, Amazon, Ali Baba e alle grandi finanziarie) prendono decisioni che incidono sulla vita di ogni uomo senza che né i Parlamenti né, spesso, i Governi possano intervenire.
I Parlamenti finiscono per statuire soltanto su questioni organizzative interne e tutto sommato marginali, concernenti i bilanci degli Stati, che ormai sono soltanto una parte (e non necessariamente la piú cospicua) della ricchezza globale.
Perciò occorrono nuove soluzioni e nuove forme in grado di consentire al popolo di conoscere e controllare gli accadimenti (finanziari, politici, sociali).
Ciò impone la piena consapevolezza che l’Organizzazione delle società è in continuo cambiamento e richiede anche soluzioni costituzionali differenti.
L’antichità è un esempio di questo continua adattamento. Il quale fu assicurato attraverso
- La temporaneità delle cariche politiche, introdotta sin dal sorgere della Respublica con la sostituzione del Rex, che era a vita, con una magistratura a termine.
- La centralità del popolo sia attraverso le assemblee sia attraverso Organi deputati al controllo continuo del potere in qualsiasi momento e con diritto di veto su qualsiasi atto.
In proposito, pertanto, ritengo che anche oggi sia fruttuoso rivisitare le soluzioni adottate e rivolgere l’attenzione su quanto si fece a Sparta7 ed in Roma8, dove fu avvertita la necessità di porre argini all’esercizio del potere; non solo attraverso i normali organi dell’organizzazione di tipo costituzionale, ma anche con l’introduzione di autorevoli controllori della correttezza ed opportunità delle scelte operate da qualsiasi ‘potere’9.
Proprio i pensatori che sono alla base dell’odierna organizzazione politica, la quale, nel frattempo, è divenuta anche ‘statale’ riproposero i modelli dell’Eforato e del Tribunato.
Vediamo perché.
Eforato. Le caratteristiche scorte nell’Eforato fecero in modo che esso fosse additato come ‘modello’ da quanti avvertivano l’esigenza del controllo del potere e della partecipazione popolare. Perciò, a partire dal sec. XVII venne riproposto come argine al potere del Sovrano. Nel 1603 Johannes Althusius pubblicava la Politica, opera ritenuta l’atto di nascita del diritto pubblico moderno, fondamentale per il pensiero federalista e la riaffermazione della sovranità popolare. Secondo l’autore nella comunità politica vi è un momento unitario, costituito dalla confluenza tra l’operato dei sommi magistrati che esercitano il potere ed il concorso del popolo (con le sue molteplici forme di aggregazioni), il quale si esprime attraverso propri rappresentanti diretti: gli Efori. In tal modo la società si organizza intorno ad un’istanza di guida (espressa dai governanti) e ad un’istanza di partecipazione collegiale, che esprime direttamente la volontà della comunità. Perciò sono gli Efori ad avere l’auctoritas e la potestas piú elevata, proprio perché promanano direttamente dal popolo, consentendo al popolo stesso di farsi valere realmente di fronte all’azione di governo del sommo magistrato. Piú tardi Johann Gottlieb Fichte riprese le fila del rapporto magistrato-popolo, ma da altra angolatura: non quello positivo della rappresentatività, bensí quello del controllo. Egli ripropose l’Eforato non come potere positivo, bensí come controllo sul potere. Le caratteristiche dell’Eforato, tuttavia, sono state spesso anche esaltate nei momenti nei quali si cercava di riposizionare il popolo al centro della vita politica e costituzionale, come avvenne intorno alla metà del secolo XVIII, quando l’Eforato è stato talora ripresentato come modello di giustizia e di difesa delle istanze popolari. Significativa appare la sua riproposizione ad opera del Pagano, il quale lo ipotizzò come organo idoneo a soddisfare l’esigenza di porre in essere efficaci strumenti giuridici volti a impedire ogni forma di usurpazione del potere. Compito dell’Eforato, per l’autore partenopeo, era quello di dare spazio al popolo, in modo da garantirlo contro gli abusi di potere e la violazione dei diritti, evitando di diventare a sua volta fonte di potere incontrollato. La ricerca di una forma di controllo efficace e il ricorso all’Eforato (proprio nell’epoca del Pagano) erano oggetto di attenzione e tensioni anche in Francia, attraverso alcune proposte presentate all’Assemblea legislativa. Nel febbraio del 1793, Jacques-Marie Rouzet propose la creazione di un organo collegiale di 85 membri preposto al controllo della costituzionalità delle leggi, da effettuarsi prima ancora della loro approvazione da parte dell’Assemblea. Ai membri di tale organo, il Rouzet, molto prima che il Pagano redigesse il suo Progetto, dava il nome di Efori. La sua proposta si inseriva all’interno del progetto rivolto ad assicurare la legalità, considerata parte essenziale dei diritti dell’uomo. Allo stesso obiettivo si ispirò anche il ben piú articolato e complesso progetto presentato, all’Assemblea, dall’abate Sieyès, il quale prevedeva l’introduzione di un jury constitutionnaire (da lui denominato altrove anche tribunal des droits de l’homme) incaricato di una triplice funzione: vegliare sulla salvaguardia del dettato costituzionale, proporre dei perfezionamenti della Costituzione ed esercitare un controllo sulle sentenze della giurisdizione ordinaria sulla base del diritto naturale. Conseguenza del giudizio dinanzi al jury sarebbe stata la possibilità di dichiarare “nuls et comme non avenus” gli atti incostituzionali. Benché apprezzato da molti, il progetto del Sieyès venne respinto, ma, l’istanza, della quale si faceva portatore, restò un punto di riferimento, per la cultura europea.
Tribunato. Il Tribunato, ripetutamente nel corso del tempo, è stato considerato lo strumento piú immediato ed efficace per la salvaguardia dei diritti e delle aspettative dei cittadini. Del Tribunato si è richiamata la carica potenzialmente rivoluzionaria e la capacità di essere vicino alle esigenze dei cittadini; perciò esso è stato riproposto anche ai tempi d’oggi, riconoscendogli una eccezionale attualità e l’idoneità a contribuire alla soluzione della crisi dello Stato moderno, che ha tutto da guadagnare dal richiamo del modello “giuspubblicistico” dell’antica Roma, particolarmente quello della Repubblica, ritenuto il piú rispettoso della sovranità del popolo. In tale modello i Tribuni erano centrali, al punto che Cicerone arrivava a dire che non si sarebbe potuto parlare di Respublica se non ci fosse stato il Tribunato. L’origine plebea, il suo inserimento nelle lotte patrizio-plebee, prima, per la riforma agraria e, piú in generale, il suo intervento a favore degli oppressi, dettero all’istituzione un fascino trascinante, che perdura ai tempi d’oggi, tanto che alcuni pensano alla attualizzazione del Tribunato, per rimuovere le cause della crisi di fiducia dei cittadini. I Tribuni della plebe erano presenti in alcune città medievali: è rivelatrice la circostanza che il governo popolare cittadino instauratosi a Bologna nel 1300 fosse articolato intorno ai Tribuni della plebe e desse vita a costumi che durarono fino al 1700. Nell’età moderna troviamo il Tribunato al centro del dibattito tra Montesquieu (Charles-Louis de Secondat, barone de La Brède e de Montesquieu) e Jean-Jaques Rousseau riguardo al ‘modello’ piú adatto all’età contemporanea. Al primo, contrario al Tribunato perché convinto che esso fosse inconciliabile con la democrazia rappresentativa di matrice inglese, da lui perseguita, il Rousseau controbatteva con la proposta di introduzione di una magistratura di mediazione (un magistrat intermédiaire) forgiata in assonanza con il Tribunato romano. I rivoluzionari Robespierre (Maximilien-François-Marie-Isidore de Robespierre) e Babeuf (François-Noël Babeuf, il quale, volendo estremizzare l’affermazione del ruolo del popolo, aveva visto nel Tribunato la soluzione piú pertinente), addirittura mitizzarono il Tribunato. Robespierre però diffidò dei travisamenti degli uomini e propose che fosse il popolo stesso ad esercitare il Tribunato. Babeuf fece del Tribunato il suo modello di eccellenza tanto che (il 5 ott. 1774) ribattezzò il suo giornale (Journal de la liberté) con il nuovo nome di Tribun du peuple e vide nel Tribunato lo strumento per la giustizia e la lotta dei poveri contro i ricchi ed i potenti, nel perseguimento della democrazia popolare al posto della democrazia borghese. Tra i filosofi il Tribunato, ignorato da Kant, fu riproposto da Schlegel (Karl Wilhelm Friedrich von Schlegel), nella rivalutazione pre-romantica del popolo, il quale vide nell’istituzione di un hochheiliger Tribun lo strumento ultimo di difesa della parte migliore del popolo. Il Tribunato è stato considerato la figura cui ispirarsi per superare i limiti della ‘democrazia’, consistente nella possibile ‘tirannia’ della ‘maggioranza’. Si è, infatti, affermato che la sola maggioranza, contrariamente a quanto si crede sulla scorta del modello di democrazia degli Stati Uniti d’America, non può essere garanzia di democrazia, poiché può diventare facilmente ‘oligarchia’, per il fatto che essa “fondando il potere della maggioranza, ha trascurato di sottoporlo a questo sindacato permanente >il Tribunato< di cui tutti i poteri hanno bisogno”. In quasi tutte le proposte, tuttavia, piú che al complesso dei poteri e delle prerogative dei Tribuni il riferimento prevalente è alla possibilità di opporsi al ‘potere’ dei magistrati e degli organi della repubblica10.
Nell’UE vi è un mediatore, erede dell’Ombudsman di matrice svedese, ma con poteri tanto ristretti da incidere poco nella vita dell’UE e sull’effettivo rispetto della dignità umana, proclamata dal Trattato di Lisbona.
Questa figura è soltanto una pallida replica del defensor civitatis e del glorioso Tribunato della plebe. Quelle istituzioni erano concepite come reale freno all’esercizio del potere, le odierne figure (Ombudsman, Mediatori, Defensor del Pueblo, Avvocati del popolo, Difensori civici ecc.) sono espressione del potere stesso o del Parlamento (ma chi si fida piú del Parlamento?) e sono destituite di poteri reali, essendo limitati al ruolo di intermediari e portavoce presso le amministrazioni.
Eppure quello del controllo del potere durante il suo esercizio, come si è detto, è un grosso nodo; non basta, eventualmente, sovrintendere all’emanazione dei provvedimenti, occorre controllarne l’effettiva e corretta attuazione. Senza questo controllo, attraverso un organo dotato di poteri incisivi, la stessa democrazia perde senso e diventa un comodo paravento per decisioni unilaterali e non rispondenti all’interesse della collettività; in Italia manca addirittura una figura nazionale di tal fatta, malgrado l’invito rivolto dall’ONU alla fine della prima metà del secolo scorso.
Specialmente per i diritti fondamentali il controllo, per essere efficace, dovrebbe essere preventivo. L’UE ha avvertito la delicatezza di ciò e, prima con il Trattato di Maastricht poi in quello di Lisbona, ha introdotto il principio di precauzione, che dovrebbe consentire di bloccare un atto offensivo dell’ambiente o comunque temuto nocivo sin dal nascere11. Ma alla proclamazione è seguito ben poco. Si attende che siano indicate le forme, eventualmente anche giudiziarie, per dare sbocco a quel principio.
Auspicherei che, partendo dalle antiche figure, che seppero assicurare ‘centralità e ‘voce’ al popolo, si riflettesse pacatamente, perché nessuno forse ha ancora la soluzione; ma insieme potremmo costruire ipotesi plausibili.
In tal modo potremo, spero, porre le basi della necessaria ed indilazionabile anaciclosi, che sappia ridare ai popoli e, in generale, all’Umanità il ruolo centrale ed insostituibile anche dinanzi ai futuri sconvolgimenti imposti dalla progressiva avanzata delle Intelligenze Artificiali, in grado, se non sappiamo prevedere bene il futuro e lo lasciamo in mano a governanti (non di rado inadeguati), di soppiantare e sostituire l’UOMO in modo radicale, dando vita a quella che è stata prefigurata come la quarta Era, l’Era del post-umano12.
1 Sul punto, cosí come per la bibliografia che accompagna le riflessioni qui esposte, rinvio al mio articolo Il controllo del potere: ieri ed oggi, in Studi in memoria di Giuseppe Panza [cur. G. Tatarano e R. Perchinunno], Napoli, 2010, pp. 713-737.
2 Rinvio, sulla materia, a miei precedenti articoli, quali: Democrazia e controllo del potere, in Diritto@Storia (riv. on line). N. 10 – Nuova Serie (Luglio 2012), ISSN 1825-0300.;La democrazia ricorrente. Democrazia o oligarchia?, in Civitas et Lex, ISSN 2392-0300, 2015/2(6), Uniwersytet Warmińsko-Mazurski W Olsztynie – University Of Warmia And Mazury In Olsztyn; Uomini e potere: ieri e oggi, in Logos, Rivista politico-culturale, online, Sabato 11 Luglio 2015, indirizzo: http://www.logos-rivista.it/index.php?option=com_content&view=article&id=498&Itemid=444.
3 Polibio, Storie; libro VI. 4-10.
4 Secondo Polibio, Roma, come Sparta, non sarebbe degenerata nel suo buon governo perché la sua costituzione si fondava sull’equilibrio delle tre forme politiche “benigne”: il consolato, che rappresentava il potere monarchico, il Senato quello aristocratico ed infine i tribuni e l’istituzione dei concili della plebe quello democratico. I consoli, come il monarca, comandano l’esercito e governano le spese di Roma (un’eccezione di rilievo all’autorità consolare è rappresentata dai tribuni della plebe). Il Senato è responsabile per la nomina e l’elezione dei consoli e dei censori ed è la forza trainante degli affari che si svolgono in città e in materia di politica estera. Naturalmente, tutto ciò non può avvenire senza la censura del popolo e nessuno si può insediare in qualunque carica senza il voto del popolo.
5 Niccolò Machiavelli, Discorsi I,2.
6 V. M. Ainis, La cura. Contro il potere degli inetti per una Repubblica degli eguali, Padova, 2009, pp. XIV- XV.
7 A Sparta fu creato l’Eforato, introdotto sul modello dei Cosmi cretesi, secondo alcuni già dal mitico Licurgo, secondo altri più tardi (130 anni dopo) dal re Teopompo. Gli Efori, dotati di poteri vasti ed incisivi, furono concepiti come freno alla prepotenza dell’oligarchia e dei re. La ragione del crescente potere degli Efori risedette nel fatto essi venivano eletti dal popolo e, per questo, erano visti come rappresentanti di esso e quindi anche mallevadori dei diritti dei cittadini. L’ampiezza del potere degli Efori venne bilanciata dalla durata molto breve (soltanto un anno) della magistratura, e dal fatto di potere essere chiamati a rispondere del proprio operato, allo scadere della loro magistratura.
8 L’istanza fondamentale della protezione dei deboli e della difesa dei diritti del popolo sia per gli antichi sia per le età moderna e contemporanea, però, non rimase ancorata all’istituzione spartana dell’Eforato, perché trovò migliore ed efficace collegamento con il Tribunato della plebe. Il Tribunato suscitò nell’antichità (ed ancora promana) forti suggestioni, non solo per il fatto che nacque in Roma, i cui destini furono vincenti in tutto il mondo antico e si sono proiettati direttamente nelle età successive, quanto perché evoca l’immagine della contrapposizione tra popolo e potenti in maniera più diretta e performante: la letteratura sul Tribunato della plebe è tanto copiosa da non poterne dare riferimenti in questa sede, soltanto per una sintesi d’assieme, rinvio ai manuali di Storia del diritto romano, tra i quali Aa. Vari, Lineamenti di storia del diritto romano, Milano, 1989, ed in particolare alle esposizioni di L. Capogrossi-F. Càssola, alle pagine 83 s. (Le vicende fino alle XII tavole) 177 ss. (I tribuni della plebe).
9 La prima ideazione di organi in grado di controllare il potere forse risalgono alla pacifica civiltà cretese, la quale, come ricordava Aristotele, ideò l’istituto dei Cosmi, diretto al controllo del potere esercitato dai re.
10 Sui punti qui richiamati v. G. Lobrano, Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere, Torino, 1996, cui adde dello stesso autore, Diritto pubblico romano e costituzionalismi moderni, Sassari, 1994.
11 P. de Aranjo Ayala, O principio de precauçao e a proteòao juridica de fauna na costituiçao brasileira, in Revista de Dereito ambiental, 39 (julho-setembro 2005) p. 147 ss.; L. Boisson de Chazournes, Le principe de précaution: nature, contenu et limites, in Le principe de précaution. Aspects de droit international et communitaire [cur. C. Leben-J. Verhoeven], Paris, 2002; P. Martin-Bidou, Le principe de précaution en droit international de l’environnement, in Revue générale de droit international public (1999) p. 632 ss.; C. Raffenspergen-J. Tickner, Protecting Publich health and the Environment. Implementing the Precautionary principle, Wshington, 1999; N. de Sadeleer, Les principes du polleur-payeur, de prévention et de précaution. Essai sur la genèse et la portèe juridique de quelques principes juridiques du droit de l’environnement, Bruxelles, 1999; O. Godard, Le principe de précaution dans la conduite des affaires humaines, Paris, 1997; T. O’Riordan-J. Cameron, Interpreting the precautionary principle, London, 1994.
12 Essa è preconizzata da Byron Reese, The Fourth Age. Smart Robots, Conscius Computers, and the Future of Humanity, Schuster, New York 2018. L’a. individual nella Terra 4 ere: 1. Il linguaggio ed il fuoco. 2. L’agricoltura e le città. 3. La scrittura e la ruota. 4. I robot e l’intelligenza artificiale.
10 Sui punti qui richiamati v. G. Lobrano, Res publica res populi. La legge e la limitazione del potere, Torino, 1996, cui adde dello stesso autore, Diritto pubblico romano e costituzionalismi moderni, Sassari, 1994.
11 P. de Aranjo Ayala, O principio de precauçao e a proteòao juridica de fauna na costituiçao brasileira, in Revista de Dereito ambiental, 39 (julho-setembro 2005) p. 147 ss.; L. Boisson de Chazournes, Le principe de précaution: nature, contenu et limites, in Le principe de précaution. Aspects de droit international et communitaire [cur. C. Leben-J. Verhoeven], Paris, 2002; P. Martin-Bidou, Le principe de précaution en droit international de l’environnement, in Revue générale de droit international public (1999) p. 632 ss.; C. Raffenspergen-J. Tickner, Protecting Publich health and the Environment. Implementing the Precautionary principle, Wshington, 1999; N. de Sadeleer, Les principes du polleur-payeur, de prévention et de précaution. Essai sur la genèse et la portèe juridique de quelques principes juridiques du droit de l’environnement, Bruxelles, 1999; O. Godard, Le principe de précaution dans la conduite des affaires humaines, Paris, 1997; T. O’Riordan-J. Cameron, Interpreting the precautionary principle, London, 1994.