Tempo di lettura: 2 minuti
Sono passati diciotto anni dalla morte di Sergio Endrigo (7 settembre 2005), volto antico, voce mai prepotente con una misura del canto che faceva intuire una buona educazione ricevuta. Nove festival di Sanremo arrivando primo, secondo terzo e vincendo il premio della critica come miglior interprete maschile. Cantautore, poeta, professionista di altri tempi, el Ragno, come veniva chiamato da bambino per essere talmente magro per la fame che veleggiava in quel periodo di guerra, aveva ricevuto dal proprio destino il dono di diventare un grande artista. Una famiglia, la sua, con grande cultura musicale: padre tenore, nonna e nonno appassionati di canto, lo zio materno insegnava pianoforte e dirigeva un coro, mentre il famoso Antonio Smareglia, considerato uno dei compositori italiani più interessanti della fine dell’ottocento, era un suo prozio. Molti lo hanno descritto una maschera malinconica, il mezzo sigaro tra le dita che parlava di sé come un cantautore per caso. “La voce dell’uomo”, come venne definito da alcuni scrittori passati che si cimentarono in una sua autobiografia, viene ricordato in un una nuova edizione dalla figlia Claudia in libreria dal 29 aprile scorso, “Sergio Endrigo, mio padre” edito da Baldini & Castoldi. “Papà non si è mai sentito un divo: se lo chiamavano poeta si imbarazzava ed era molto geloso della sua vita privata. Durante gli anni d’oro, dopo aver finalmente raggiunto la sicurezza economica, si era tolto tanti sfizi ma non aveva mai ostentato; gli piacevano le comodità ma non il lusso”. Questo il vero ed unico abito di un artista che ha vissuto talento e successo con la giusta discrezione tanto da essere definito un uomo timido. La figlia Claudia, tra queste pagine, ben 555, 200 tra storie e racconti della sua vita, diverse canzoni e poemi scritti e tante fotografie a farne da cornice, lo ricorda come un grande padre, citando le sue parole, che faceva un mestiere come un altro. Un diario, lucido e puntuale, soprattutto nostalgico e devoto, con cui l’autrice abbraccia il novecento ricordando la vita di un cantore del suo tempo: le strimpellate da bambino in un’osteria istriana e l’esilio precipitoso sul piroscafo Toscana; i primi concorsi canori e le performance scalcagnate; le pensioncine divise con Luigi Tenco e i siparietti con Enzo Jannacci; infine, il debutto con Nanni Ricordi e l’eterno sodalizio con Sergio Bardotti. E poi i successi, le delusioni, le fragilità, la fine. Al suo essere discreto, umile e di grande stile vanno aggiunte due momenti ancora più importanti: il grande amore per la sua Lula, Maria Giulia Bartolocci. La figlia Claudia dice: “Papà è stato senza ombra di dubbio l’unico grande amore della sua vita”. Trentuno anni di un grande amore. Il suo grande successo: “Io che amo solo Te”, scritta nel 1962. Un testo che il grande Morricone definì “canzone perfetta”. C’è anche un po’ di Sud nella vita di Sergio Endrigo con quella canzone del 1965, “Teresa”, donna che conobbe a Brindisi quando fu mandato come profugo nel collegio Niccolò Tommaseo. Un libro da leggere assolutamente tutto d’un fiato perché dentro c’è qualcosa di prezioso che per molto tempo ancora cercheremo ma non troveremo soprattutto nel panorama musicale fatto di sole pubblicità ingannevoli. “Io che ho avuto solo te e non ti perderò, non ti lascerò per cercare nuove illusioni”. Una traccia da non dimenticare.