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Artur Dimant, Ebreo-polacco (in Palestina divenuto Ariel Yahalomi), inizia l’undicesimo capitolo del suo memoriale intitolato, nella mia traduzione italiana, “Finalmente salvo!..” (Deltaedit, Arnesano 2015), con queste parole: “Nel maggio del 1948 scadeva il mandato inglese sulla Palestina e, di conseguenza, anche le forze armate britanniche lasciavano quel Paese. Ed allora da tutti i Paesi arabi confinanti irruppero le truppe armate in Palestina, segnando in tal modo l’inizio della guerra per l’indipendenza d’Israele”.
L’autore, che era sopravvissuto a 11 campi nazisti (dall’autunno del 1940 al 15 aprile 1945, giorno della liberazione dal campo di concentramento di Bergen-Belsen), nell’estate del 1946, emigrando clandestinamente dalla Francia con un viaggio in mare drammaticamente avventuroso, approda in Palestina dove ancora una volta deve far fronte ad una precarietà esistenziale, al limite della disperazione, prima di conseguire condizioni di vita accettabili, sia pure in un clima di costante allerta e prontezza difensiva.
Per fornire al lettore italiano un’integrazione informativa e agevolargli la comprensione delle parole dell’autore, io allora facevo seguire la seguente nota che, in questi nostri giorni di grande sconcerto, tensione, incubi e paure in Europa e nel mondo, risulta essere di notevole attualità, pure a distanza di quasi dieci anni.
« L’aspirazione degli Ebrei ad avere un proprio Stato che ponesse fine alla plurisecolare diaspora per tutto il mondo (caratterizzata da umiliazioni, discriminazioni, ghettizzazioni, persecuzioni e massacri) fu concepita e propugnata alla fine dell’800 dal sionismo, movimento ideologico-politico fondato da Thedor Herzl (1860-1904) con il suo saggio Der Judenstaat [Lo Stato Ebtraico]. Alla fine della prima guerra mondiale, con lo smembramento dell’impero ottomano, la Palestina, su mandato della Società delle Nazioni, passa sotto il protettorato dell’impero britannico (1922-1947), che favorisce (almeno nei primi anni) l’immigrazione degli Ebrei. Con la risoluzione n.181, approvata dall’Assemblea Generale dell’ONU il 29 novembre 1947, si prevedeva l’istituzione di due Stati, uno ebraico e l’altro arabo, mentre Gerusalemme sarebbe stata sotto controllo internazionale. La Comunità Ebraica accetta questo piano senza condizioni, perché vede sancito finalmente il diritto ad un proprio Stato, mentre la popolazione araba di Palestina e i Paesi Arabi confinanti (Libano, Siria, Giordania, Egitto) rifiutano decisamente, radicati nell’idea che la presenza ebraica in Palestina sia un odioso corpo estraneo da espellere a tutti i costi e con ogni mezzo. Allo scadere del mandato britannico, quindi, il capo del governo provvisorio ebraico, Davíd Ben Gurión, proclama (14 maggio 1948) la nascita dello Stato d’Israele. Il nuovo Stato riceve ben presto il riconoscimento degli Stati Uniti, dell’URSS e di molti altri Paesi. La popolazione araba della Palestina, però, insieme con i Paesi arabi confinanti, non solo non desiste dalla tradizionale pratica di attentati e incursioni in ambienti ebraici, ma lo stesso giorno della proclamazione, irrompe insieme con le forze armate dei Paesi confinanti nei territori assegnati allo Stato d’Israele. Questa guerra si conclude nel maggio del 1949, vittoriosamente per Israele, che guadagna nuovi territori. da cui sono scappati, o fatti scappare, centinaia di migliaia di Arabi palestinesi che trovano asilo nei Paesi vicini. Qui essi iniziano un’attività di guerriglia che, insieme con attentati, sembrano non voler cessare fino ai nostri giorni.
I conflitti armati successivi (1956, guerra del Sinai; 1967, guerra “dei sei giorni”; 1973, guerra di Yom Kippur, o del Ramadan), sono, in realtà, la prosecuzione “logica” del primo, in quanto non viene mai raggiunto un definitivo accordo per la cessazione di qualsiasi ostilità. E accade che, a conclusione di ogni conflitto, lsraele risulti vittoriosa sul campo e, conquistati sempre nuovi territori nella regione, abitati da Arabi, vi crea nuovi insediamenti. Questi, ed è naturale, rappresentano vere e proprie spine nel fianco per la popolazione araba, la quale, imbevuta della convinzione religiosa che un giorno Allàh spazzerà via dalla Palestina gli Ebrei, reagisce con operazioni terroristiche che, a loro volta, provocano rappresaglie, spesso feroci e sproporzionate, in una spirale senza fine. Fiumi, o forse, mari d’inchiostro hanno riempito chissà quante pagine di libri e periodici sul tema dei rapporti ebreo-arabi in Palestina a cominciare dagli inizi del XIX secolo e chissà quante risorse materiali e quante vite umane sono andate letteralmente in fumo, particolarmente nella seconda meta del secolo passato, per giungere finora all’unico, desolante risultato di avere pericolosamente incancrenito
quei rapporti con un atavico e micidiale fanatismo “razzistico” e religioso in entrambe le comunità, che sembrano praticare e promuovere, chi piú chi meno, il principio “mors tua, vita mea”. Se oggi una qualche soluzione pare possibile, questa non va cercata nella prospettiva che uno dei due protagonisti con la forza induca l’altro all’impotenza e “docilità”, o, peggio, all’eliminazione; ma in quella che la ragione (favorita da ragionevoli disponibilità della comunità internazionale) aiuti i due contendenti ad impegnare una coraggiosa, straordinaria volontà di pace, allo scopo di cogliere, gli uni negli altri, legittimi e sacrosanti diritti ad un’esistenza, reciprocamente riconosciuta e rispettata, in una unica, o piú d’una, entità statuale ».
Per un ulteriore approfondimento sulla complessa situazione, perennemente instabile, dei rapporti arabo-israeliani, aggiungo questa seconda nota, relativa alla mia introduzione al libro sopra menzionato:
« Nella loro lunga storia gli Ebrei, a dispetto di un esilio millenario, della loro dispersione in tutto il mondo (diaspora), dei rischi continui di assimilazione (e, pertanto, di estinzione come popolo), delle discriminazioni, persecuzioni, pogrom, massacri e genocidio, in qualsiasi parte del mondo e in qualsiasi condizione sociale e materiale si siano trovati, sono riusciti a sopravvivere, e, anzi, verrebbe da dire, sono sempre risorti dalle proprie ceneri, quasi rispecchiando il mito dell’araba fenice. Fuor di metafora, questo popolo è rimasto tale, grazie al culto della dignità della propria gente, al perseguimento ininterrotto dell’ideale di libertà e del sogno secolare di riavere la propria terra, la Terra d’Israele (Érets Israél). Questi valori ben li evidenzia lo scrittore ebreo-ucraíno, Yitzhak Lamdan (1843-1954), nel suo poema “Massàdah [La Fortezza]”, scritto in ebraico nel 1927. Egli rievoca l’eroismo degli ultimi difensori di Gerusalemme che, appunto, in quella roccaforte, Massàdah, testimoniarono, nel 73 d.C., l’amore della libertà, privandosi da soli della vita per non finire schiavi o vittime dei Romani. L’Autore medita amaramente sull’infelice destino secolare della sua gente e, soprattutto, sull’ennesimo, vano, tentativo di insediarsi pacificamente
nell’agognata terra, che avevano qualche anno prima effettuato gli immigrati dall’Europa Orientale, suoi connazionali della terza ondata (1919-1923). Ne esalta lo slancio creativo, il valore pionieristico, la laboriosità, lo spirito di sacrificio e la generosità, pur nella constatazione delle sfortunate, tragiche vicende vissute nella nuova terra. Ma proprio in quelle vicende, in quelle condizioni cronicamente instabili, ostili e insicure, al limite della piú completa disperazione, egli scava per cercare la forza necessaria per riprendersi. Ecco, allora, che, illuminata dall’eroico coraggio degli antenati e dal loro amore per la libertà, risorge Massàdah come Terra d’Israele, la quale in tal modo rappresenta, per gli Ebrei di tutte le comunità distrutte, l’ultimo baluardo di fronte alle piú diverse minacce esterne. Nel poema di Yitzhak Lamdan si ripete a mo’ di ritornello un verso, che nella sua emblematicità echeggia come un impegno solenne e che, dopo la guerra del 1967, le Forze di Difesa Israeliane hanno adottato come formula ufficiale di giuramento per le nuove reclute: “Massàdah mai piú cederà!”».
Augusto Fonseca