Tempo di lettura: 11 minuti
L’Intelligenza Artificiale (IA) non è una proiezione tecnologica futura: è un fatto tangibile attuale, che non può e non deve sfuggire a un’analisi etica rigorosa complessa, ma allo stesso tempo concreta e flessibile. Sono numerosi, ormai, gli studiosi che si siano dedicati a realizzare disamine e osservazioni puntuali e acute su tale questione, meritevoli delle più ampie lodi scientifiche e degli apprezzamenti della maggioranza degli esperti del campo. Ma, come spesso capita in ambito universitario, a un certo punto solo alcuni contenuti teorici passano per essere quelli più sostenibili, suffragabili e addirittura indiscutibili perché, semmai, i loro autori hanno raggiunto un certo livello di prestigio e di stima presso la comunità scientifica, o perché fanno parte di circuiti accademici importanti e influenti, una sorta di ‘mainstream cattedratico’, ragion per cui risulta sempre più difficile, se non addirittura ‘eretico’, mettere in questione determinate loro teorie o alcune loro traiettorie interpretative, anche se probabilmente possono essere in molti a nutrire dei dubbi nei loro confronti. Nel merito tale destino sembra riguardare il filosofo Luciano Floridi e la sua proposta etico-speculativa sull’IA, espressa in un volume1 divenuto un must letterario e accettata, ripresa e rimodulata in variegate forme concettuali da altri ‘ripetitori accademici’, che in tale maniera, probabilmente, auspicano di raggiungere i medesimi risultati professionali del filosofo di Oxford o di eguagliarne l’indubbia fama teoretico-produttiva o di guadagnare qualche minimo credito presso le loro sedi e cerchie intellettuali. Nello specifico ci si riferisce a una particolare sezione della proposta floridiana relativa alla teoria della ‘società per la buona IA’, con la quale il pensatore propone una serie di raccomandazioni, teoriche e pratiche, scientifiche e politiche, culturali e materiali, per consentire a entità pubbliche, a soggetti privati e ad associazioni di settore di contribuire a istituire una società che non solo legittimi l’uso in sé dell’IA, ma ne incoraggi un impiego costruttivo e un indirizzo applicativo tendente al bene comune di tutti i consociati.
Innanzitutto ciò che può essere immediatamente messo in questione è il presupposto/obiettivo della proposta generale, ovvero che debba necessariamente porsi in essere, a seguito per di più di uno sforzo collettivo, una società che si organizzi attorno all’IA, quasi che questo debba rappresentare un proposito fondamentale cui orientare le energie sociali e morali, oltre che giuridiche, di gruppi umani a livello ecumenico. In pratica l’IA, dato il suo carattere diffusivo e infiltrativo ineludibile, e data la sua capacità di intervento radicale e pieno sulla vita dei singoli e delle comunità, sulle interazioni e le relazioni oltre che su tutti gli ambienti in cui esse si svolgono, dovrebbe simboleggiare una sorta di nuovo principio socio-costitutivo e unificativo, tanto da spingere a livello globale interi consorzi antropici a riconoscere ‘obbligatoriamente’ in essa non solo un valore intrinseco, ma addirittura una specie di oggettiva valenza neo-costitutiva e neo-aggregativa, capace di sostituire altre dimensioni accorpative che abbiano funzionato in tal senso sino a ora. Solo immaginare che intere organizzazioni umane universalmente debbano porsi il problema di offrire un posto di riguardo, addirittura centrale, nel loro immaginario collettivo, all’IA, per di più come sorgente e collante sociale la dice lunga sulle trasformazioni in atto, a livello teorico e pratico, e sulla necessità di vigilare criticamente su di esse. In modo particolare e preponderante la delega di principio unificatore a una sfera che tendenzialmente punta ad autonomizzarsi in modo assoluto, ovvero a prescindere progressivamente e totalmente dal rapporto con quell’uomo che starebbe, al contrario, consegnandole le chiavi della sua stessa umanità socio-trans-individuale. L’offerta su un piatto d’argento all’IA di configurare una finalità sociale in una misura così elevata, cioè di compito etico odiernamente imprescindibile – cosicché, semmai, diventando ‘buona’, essa renda tale, se non migliore, quella stessa società che si starebbe costruendo a partire dalla sua artificialità intelligente –, implicitamente invia il messaggio della necessità e della cogenza di una ‘rivoluzione’ riguardo al fondamento di una ‘costituenza sociale’ contemporanea, cioè relativamente all’esigenza per le società attuali di individuare per sé nuovi principi e poteri costituenti. Il che potrebbe anche essere interessante, innovativo, addirittura originale, se non fosse che la proposta di Floridi pare purtroppo consegnare tale ufficio fondativo (e compositivo) a una dimensione talmente impersonale, autonoma e dichiaratamente autoreferenziale da elidere qualsiasi traccia di umanità materiale, fisica e sostanziale nel processo di edificazione sociale, che, in quanto tale, traspira appunto umanità da ogni poro. Quindi una società per la buona IA significa principalmente una società che non solo non potrebbe fare a meno di fabbricarsi intorno a ciò che, in modo contraddittorio, ‘naturalmente/artificialmente’ (e ‘orgogliosamente’) tende a escludere (o comunque a limitare al massimo, sotto-dimensionare e sotto-porre) proprio la componente umana dalla ‘fabbricazione’ sociale – che si vuole, al contrario, grazie a essa, per di più neo-fondare –, ma addirittura dovrebbe porsi esclusivamente la preoccupazione e il compito di tradurre in sola positività l’uso dell’IA ed di evitarne al minimo uno negativo o dannoso per i suoi membri. In tal modo bocciando e respingendo totalmente l’ipotesi, non tanto di una sua completa eliminazione o marginalizzazione – che sembra impossibile quanto addirittura blasfemo e sacrilego già solo supporre o presumere –, ma per lo meno di una sua adeguata quanto opportuna critica etica in sé, che, a dirla tutta, non sembra nemmeno potere essere ventilata – se non in forme comunque confirmative della necessità e validità odierne dell’IA – né da Floridi né da altri sostenitori della maggior parte delle ICT algoritmiche, provviste di sistemi di apprendimento automatico e/o di apprendimento profondo. In prima sintesi, dunque, in aggiunta al danno v’è pure da considerare la beffa, dal momento che, oltre ad autorizzare la pensabilità dell’IA come già sempre, nell’uso, legittima in sé e solo progredibile nella sua positività, la società per la buona IA pone paradossalmente nel cuore medesimo della sua architettura morfologica umana e sociale un principio costitutivo di per se stesso de-umanizzato/de-umanizzante e de-societario/de-associativo.
In secondo luogo la proposta floridiana di una società per la buona IA in pratica induce una de-differenziazione di ordine culturale e identitario nelle gruppalità umane che dovrebbero tecnicamente organizzarsi su quella inedita ‘soggettualità artificiale’, in questo modo trasferendo a esse alcune delle principali connotazioni caratteristiche dell’IA – come di tutte le tecnologie informatico-digitali – rappresentate dalla indifferenza e dalla omogeneità, implicite nella propria natura di strumento tecnico, del tutto estraneo a e incurante di qualsiasi diversità e difformità culturali degli utenti, tra loro già sempre ‘identitci’. Il fatto che culture tradizionalmente differenti incardino la propria strutturalità organizzativa a partire dalla e in funzione della IA – di per sé sempre uguale a se stessa (anche nella sua illimitata auto-differenziazione e auto-replicazione) e capace di diffondere, grazie al suo uso, tale congenita prerogativa a tutto quanto ne sia affiliato o dipendente –, intesa quale nucleo fondamentale del proprio assetto, promuove automaticamente processi che mirano alla costruzione di una società globale in sé indifferente, omogenea, auto-identica, livellata, auto-equi-valente, che, per la sola ragione di dovere validare e difendere il nuovo valore primario dell’IA, ‘deve’ essere disposta a sacrificare sul nuovissimo iper-digitale e algoritmico altare della tecnica qualunque specificità culturale. Da ciò consequenzialmente discende la condizione di una assoluta ‘uni-ficazione’ sociale umana, nel senso della produzione di una sola e unica ‘società globale’. La quale, oltre a essere ‘buona’ perché in tale direzione, secondo Floridi, dovrebbero essere concentrati gli sforzi etici, culturali e politici di tutti gli individui interessati a rendere l’IA un bene comune universalmente fruibile ed emancipante, alla fine dei conti lo sarebbe anche perché, per l’appunto, ‘esclusiva’ e ‘irripetibile’, ovvero di per se stessa incomparabile con altro logicamente non esistente, valutabile come inferiormente buono o come male, nel senso di essere impossibilitata a compararsi con qualunque altra società nella sua particolarità già sempre sussunta e annichilita in quella tecno-generale. A tale discorso sembra solidamente allinearsi, con-formarsi e aderire – con le cautele interpretative del caso – il concetto di Byung-Chul Han di ‘iperculturalità’, espresso di recente in un suo omonimo libro2, il quale appare come la traduzione o la declinazione filosofico-intellettuale dell’idea, fin qui indagata, di una sola società mondiale, a base, per così dire, ‘algoritmica’, dal momento che il pensatore sudcoreano-tedesco, già studioso dei processi omologativi e omegeneizzativi indotti dall’uso universale delle tecnologie digitali, rinviene osservazionalmente che l’eliminazione di qualsiasi diaframma tra proprio ed estraneo, tra vicino e lontano, tra familiare ed esotico – come ben rappresentato anche dalle tendenze alimentari di fusion food (altra variante ‘gastronomica’ dei processi socio-indifferenziativi, cui partecipano l’IA e le più innovative tecnologie di informazione e comunicazione) – destituisca di senso le idee di cultura particolare e di appartenenza, quindi, in pratica, l’idea di ‘identità culturale’. Più proficua, ermeneuticamente parlando, dovrebbe per lui essere per l’appunto l’immagine della ‘iper-cultura/iper-culturalità’, da intendersi, in pratica, quale spazio aperto dell’‘in-appartenenza’ a un collettivo ‘noi’, del rinvio identitario al solo sé da parte di ciascun individuo, in grado di aumentare il proprio livello di reale quanto esperibile libertà personale. Lungi dal considerarla pessimisticamente una condizione critica, che desti preoccupazione, Byung-Chul Han, al contrario, la ritiene (straordinariamente) una situazione inedita positiva, che, nonostante mandi in frantumi inveterate categorie sociali e filosofiche, e nonostante de-parzializzi la/le cultura/culture, pur non ne ‘unitarizzerebbe’ e ‘monocromatizzerebbe’ l’impianto, ma, inversamente, a suo (unico) avviso, lo plura-lizzerebbe, nella misura, però, in cui a contribuire a tale diversificazione e multiformazione non sarebbero più le ‘singole’ collettività socio-culturali, ma i ‘singoli’ individui, considerati, in tale inedito scenario iperculturale, i nuovi ‘esclusivi’ e dirompenti soggetti sociali, nei quali, cioè, si condensa attualmente tutta quell’energia sociale che, prima dell’avvento della nuova società digitale e uni-diffusiva, era sprigionata dalle collettività. Secondo Han, dunque, l’essere-ovunque di ciascun ente umano e fisico – prodotto dalla presente de-spazializzazione territoriale e culturo-identitaria, attivata grazie alla super-cibernetizzazione della realtà umana e dalla digitalizzazione selvaggia dell’antropico, oltre che dai processi di iper-globalizzazione, ed espressione puntuale del modernissimo ‘qui-e-ora’ socio-digitale e sovra-parziale/sovra-culturale, con cui andrebbe a coincidere – dimostrerebbe non un’implosione di senso del sociale, ma al contrario una sua ri-significazione, all’insegna dell’affermazione delle dinamiche di emancipazione individuale e di ‘dis-appartenentizzazione’ culturale dei singoli, capaci di dischiudere insolite, inconcepibili ed estesissime distese di significati, ovviamente tutti interni a tale struttura (anche se internamente diversificata, comunque unica!) macro-onni-spaziale, in cui ogni singolarità particolare si risolve. Per non dire proprio che si esaurisce, annichilendosi! L’incontro tra il Floridi dell’etica dell’IA e l’Han dell’iperculturalità porge, quindi, l’icona vivida di una società che, per un verso, quanto più è ‘digito-centrica’, tanto più è iper-culturale, e, per un altro, quanto più è iper-culturalo-centrica, tanto più esige livelli sempre maggiori di digitalità e di IA, cosicché il tasso di a-nonimia, di a-nomia, di neutralità e di in-appartenenza può mantenersi invariato o mutare solo in un senso maggiorativo, scongiurando un ritorno alle culture e alle identità umane. Senza pensare, inoltre, che tale eccesso di imparzialità indeterminata e grigia, unitamente a picchi inusitati di sovra-libertarismo iper-individualistico, proprio nel momento in cui slabbra le maglie del sociale e indebolisce la con-federazione e la con-laborazione attiva dei corpi sociali, atomizzandoli in modo estremo, riduce al lumicino, per non dire proprio che dis-integra quella potenza di sovversione, agitazione e rovesciamento che ogni società dovrebbe garantire a se stessa come riserva naturale e necessaria di trasformabilità ipotetica del suo assetto, di rinnovabilità della sua struttura e di cambiamento dei sui ideali costitutivi e organizzativi. E non è forse una semplice coincidenza che proprio il Byung-Chul Han della super-società iper-culturale, dopo una densa e voluminosa produzione critica nei confronti dello smantellamento delle società per come le avevamo conosciute fino a ieri in virtù dell’imposizione delle tecnologie informatiche digitali onni-diliganti, si sia lasciato andare alla pubblicazione di un’opera che, raccogliendo le componenti essenziali del suo pensiero, invece di esplodere in un titolo graffiante e aggressivo, segnale semmai della volontà di riscatto e rivalsa di soggetti esausti da processi di svilimento dell’umano e di subalternazione violenta degli individui, s’è limitata semplicemente a esprimere in esso addirittura l’impossibilità di procedere a qualsiasi forma di rivoluzione3, probabilmente ottenendo il risultato di fiaccare e deprimere le tante attese ‘pratico-teoriche’ che erano state riposte nella sua attività filosofica e confermando ai più che vi sia ancora molta strada da percorrere prima che gli intellettuali tornino, in qualche modo, a rianimare il dibattito pubblico e a fornire argomenti seri e tangibili all’azione collettiva.
In terzo luogo, in conseguenza a quanto asserito sino a ora, una società per la buona IA, dunque, per come si presenta ed è immaginabile possa costituirsi e organizzarsi, è una società unica globale dallo spazio ‘internamente’ ‘infinito’, quindi ‘in-finitamente finito’, ma, allo stesso tempo, in grado di fagocitare tutto lo spazio ‘esterno’ a essa, rendendolo del tutto in-significante in quanto lo priverebbe addirittura di una sua propria basilare legittimazione onto-tetica, ovvero già solo di esistere. Per una tale società qualunque dimensione che si presenti come ‘alternativa’ a sé deve poter essere pensata solo come una ‘variabile interna’, che scandisca comunque la necessità della ‘bontà’ e della ‘bellezza’ della pluralità dei modi in cui possa declinarsi il potere dell’IA fondativa e finalistica, e mai come un territorio ‘altro’ e assolutamente ‘diverso’, cui potere orientare un’eventuale scelta differente. E dire che tanto Floridi quanto Han, elaborando le loro teorie etico-sociali, le avevano giudicate come adatte a sprigionare il massimo grado di libertà! Per questo, per quanto ci si affanni a definire, anche da parte di Floridi, congetture interpretative, che manifestino la valutazione e la considerazione di aspetti negativi e critici nell’uso dell’IA e nella sua idonea collocazione nel paesaggio sociale e nell’immaginario collettivo, rimane al fondo sempre la convinzione non solo dell’ineluttabilità incontestabile dell’IA, ma anche della sua intrinseca ‘naturale’ bontà, che solo un impiego scorretto, impreciso e illegale può volgere in malevolenza. Se, al contrario, l’IA fosse ‘lasciata-essere’, ovvero se la si accompagnasse nella sua ‘normale’ e ‘logica’ operatività, riconosciuta implicitamente come buona perché in sé ‘neutra’ – e quindi incapace di produrre ‘volontariamente’ nocumento ad alcuno, a meno di essere etero-guidata, come detto, in altra direzione –, allora essa manifesterebbe ‘spontaneamente’ e ‘genuinamente’ quell’implicita bontà intra-tecnica, per di più incrementandone, attraverso le dovute strategie socio-morali, il tasso di proficuità individuale e collettivo, proveniente da un accordo e una regolamentazione generale in proposito.
Di qui l’esigenza, dunque, di comprendere che parlare eticamente di IA non significa immediatamente impiegare un atteggiamento critico nei suoi confronti e rispetto ai suoi utenti, visto che in molti casi, come quello floridiano qui analizzato pur parzialmente, può trattarsi di un discorso etico, corposo e articolato, per lo più ‘descrittivo’ e ‘illustrativo’, che, nonostante apra apparentemente spiragli di ‘critica’, immediatamente – in modo per di più sottile e raffinato – sa come chiuderli, se non proprio sigillarli, sedimentando nel lettore estemporaneo o nello studioso meramente assimilativo o biecamente reverente la convinzione che non vi siano alternative rispetto a quanto delineato nell’opera del maestro. La critica etica dell’IA, invece, merita spazi argomentativi opzionali maggiori e soprattutto deve contraddistinguersi per la sua tensione alla prospettazione anche di scenari tematico-contenutistici non conformistici e non convenzionali, idonei a suscitare domande radicali e scomode, e non solo consenso e approvazione.
1 Cfr. Luciano Floridi, Etica dell’intelligenza artificiale. Sviluppi, opportunità, sfide, Raffaello Cortina, Milano 2022.
2 Cfr. Byung-Chul Han, Iperculturalità. Cultura e globalizzazione, Nottetempo, Milano 2023.
3 Cfr. Byung-Chul Han, Perché oggi non è possibile una rivoluzione. Saggi brevi e interviste, Nottetempo, Milano 2022.