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La dote.
In Roma, la donna si realizzava nel e con il matrimonio, definendo la sua posizione giuridico-sociale all’interno della società romana. In conseguenza di ciò il matrimonio era nell’interesse della donna, ma anche della sua familia e della Respublica.
Per contrarre matrimonio la donna aveva bisogno di avere la dote, essenziale nella struttura del matrimonio romano[i]. Questa esigenza era molto antica nell’esperienza romana[ii] ed era tanto avvertita che Plauto metteva l’accento sulla difficoltà di sposarsi per le donne senza dote, arrivando addirittura ad accostare il matrimonio senza dote al concubinato[iii].
Orbene per assicurare alla donna l’effettiva possibilità di contrarre matrimonio i giuristi affermarono la necessità dell’intervento pubblico[iv], sottraendo quindi la tutela della donna alle sole forme previste dal diritto privato, anche nel caso in cui il matrimonio non fosse ancora valido, come quello della minore di 12 anni, che restava nella casa del marito in attesa del compimento dell’età matrimoniale:
- 23, 3, 2, Paul. 60 ad ed.: rei publicae interest mulieres dotes salvas habere, propter quas nubere possunt[v].
- 42. 5. 18 (Paul. 60 ad ed.): interest enim reipublicae et hanc solidum consequi, ut aetate permittente nubere possit[vi].
Per Paolo, che riassumeva il pensiero dell’evoluzione romana, dunque, la dote è essenziale al matrimonio, al punto che senza di essere non ci sarebbero potuti essere i matrimoni. Celiando, dunque, si potrebbe dire che i Romani si sposavano ‘per amore’, ma non necessariamente delle future mogli, bensí delle doti!
La difesa della dote, peraltro, doveva scaturire dalla concezione che si aveva del matrimonio, ritenuto essenziale per la crescita della Respublica; ragione per la quale occorreva agevolarlo salvaguardando l’integrità delle doti. Le quali, in ogni caso e pacificamente, erano ritenute consuete ed indispensabili, come aveva ribadito, nel suo vasto commentario, Sesto Pomponio:
- 24. 3. 1, Pomp. 15 ad Sab. [612]: Dotium causa semper et ubique praecipua est: nam et publice interest dotes mulieribus conservari cum dotatas esse ferninas ad subolem procreandam replendamque liberis civitatem maxime sit necessarium[vii].
Da altri frammenti del Digesto sappiamo che l’interesse pubblico alla conservazione delle doti ebbe protezione attraverso la concessione di un privilegium, vale a dire di un’azione reale che consentiva alla donna di riottenere i beni dotali dovunque si trovassero ed anche se, nel frattempo, fossero stati alienati[viii].
Quale era l’origine del termine dos = dote?
Il termine più usato per indicare la dote era dos. Le fonti ci dicono che esso proveniva da una radice greca che significava dare: lo attestano i grammatici Varrone[ix] e Festo, come prova la provenienza di do dal verbo dare:
Varro, De lingua Latina 5, 175: Dos, si nuptiarum causa data; haec Graece dwt…nh: ita enim hoc Siculi. Ab eodem donum.
Festi M. 69, De verb. signif.: Dotem manifestum est ex Graeco esse. Nam didÒnai dicitur apud eos dare.
È, però, verosimile che il termine dos non sia stata il primo, ma dovesse appartenere al tempo nel quale l’influenza della cultura greca cominciò ad essere significativa nella vita e nel linguaggio Romani. Non siamo in grado di risalire ai vocaboli usati nella Roma arcaica per indicare i beni che poi furono compresi nella parola dos; sappiamo, tuttavia, che già ai primordi di Roma le donne portavano ai mariti una ‘dote’[x].
Lo scopo della dote era quello di sostenere la vita matrimoniale: perciò la sua finalità consistette nell’essere destinata a favorire il matrimonio, al quale doveva fornire aiuto per sostenerne le incombenze ed i costi.
La destinazione specifica della dote ad onera matrimonii sustinenda appare specificamente presupposta da Paolo, quando affermava che la dote esisteva là dove vi erano i pesi del matrimonio:
- 23. 3. 56. 1, Paul. 6 ad Plautium: Ibi dos esset debet, ubi onera matrimonii sunt[xi].
Il punto controverso in dottrina ha trovato conferma con la scoperta di un frammento estratto dal libro 32 del commento all’editto di Paolo, il quale, per esserci pervenuto fuori dal Digesto di Giustiniano, dovrebbe provenire direttamente dall’opera del giurista severiano, ha definitivamente confermato la destinazione della dote ad onera matrimonii:
Pap. Grenf. 2, 107 recto: [Quia apud eum esse debet] q(u) on[e/ra sustinet: quod si iam dis]soluto / matrimonio [(societas) distrahatu]r, isdem dieb(us) prae/[cipi debet qui]b(us) et solvi debet. [Ha Se]r(vius) et Lab(eo) scribunt[xii].
In conclusione la dottrina contemporanea è unanime nell’affermare l’esistenza di un collegamento necessario e diretto tra dote e pesi del matrimonio[xiii]: la dote era uno strumento essenziale della politica di incentivazione dei matrimoni, attraverso i quali, come evidenziava il giureconsulto Pomponio si doveva “procreare prole e riempire la città di figli”[xiv].
In partenza la dote apparteneva al marito (o al padre di lui se non era autonomo, cioè sui iuris), ma già alla fine della Repubblica fu introdotta un’azione per la restituzione della dote (actio rei uxoriae) che consentiva alla moglie (o al padre di lei) di ottenere la restituzione dei beni dotali. Al termine di questo processo il marito appariva più un amministratore dei beni dotali anziché il proprietario di essi ed era tenuto ad una gestione valutata con molta severità: forse già sul finire dell’età classica e sicuramente con Giustiniano, a lui si richiese di prestare una ‘diligenza esattissima’ (diligentia exactior o exactissima), in ragione della quale egli sarebbe stato ritenuto responsabile per dolo e colpa, ma, se dotato di particolare capacità, anche del livello di attenzione che riservava alle cose proprie (diligentiam quam suis)[xv].
Chi dava la dote?
Quest’obbligo potrebbe derivare direttamente o indirettamente dalla legislazione di Augusto[xvi], anche se alcuni ritengono che sarebbe stato introdotto dagli Imperatori Settimio Severo ed Antonino Caracalla[xvii], se non solo da Giustiniano[xviii].
Base delle diverse ipotesi è un frammento di Marciano:
- 23. 2. 19, Marcianus 16 Institutionum: Capite trigesimo quinto legis Iuliae qui liberos quos habent in potestate iniuria prohibuerint ducere uxores vel pubere, vel qui dotem dare non volunt ex constitutione divorum Severi et Antonini, per proconsules praesidiesque provinciarum coguntur in matrimonium collocare et dotare. Prohibere autem videtur et qui condicionem non quaerit[xix].
Secondo il Moriaud[xx], la lex Julia avrebbe consentito il ricorso al pretore urbano per costringere il padre ad acconsentire alle nozze e dotare la figlia; successivamente i compiti del pretore furono trasferiti ai proconsoli ed ai governatori delle province dai Severi.
Il brano presuppone la preesistenza di un obbligo a dotare le figlie, per il cui adempimento, forse al tempo dei Severi, si concesse il ricorso ai magistrati delle province. Di tale obbligo vi è traccia in un passo del giurista Celso, il quale menzionava un dovere del padre di dotare la figlia (et quia pater filiae … dotem dare debet)[xxi].
Una costituzione di Giustiniano del 531 richiamava, confermandolo, l’obbligo di dotare le figlie:
- I. 5. 11. 7. 2, Imp. Iustinianus a. Ihoanni praefecto praetorio: Neque enim leges incognitae sunt, quibus cautum est omnimodo paternum esse officium dotes vel ante nuptias donationes pro sua dare progenie (a. 531)[xxii].
Ma, dunque, di chi era la ‘dote’?
L’appartenenza della dote è uno dei punti che hanno subíto le maggiori variazioni.
In età proto-repubblicana la dote apparteneva al marito sui iuris o al di lui pater.
Per consentire alla moglie di riottenerla, nel caso di scioglimento del matrimonio, occorreva uno specifico contratto (stipulatio), attraverso il quale il marito (o il di lui pater, se in vita) si impegnavano a ridare i beni dotali alla donna: in tal caso la dote si chiamava recepticia, salvo che si trattasse di dos profecticia, la quale, se la moglie fosse morta, mentre era ancora unita in matrimonio, tornava al di lei pater ancora in vita; altrimenti restava nelle mani del marito[xxiii].
Nella famiglia agnatizia, avuta presente dal ius civile vetus, la dote doveva essere necessariamente di proprietà del marito o dell’avente potestà su di lui; numerosi sono i testi dai quali emerge in modo certo la titolarità in capo al marito dei beni dotali[xxiv].
In conseguenza dell’acquisita proprietà, il marito ha il diritto di trasmetterne la proprietà agli eredi[xxv], ha la possessio sui beni dotali con possibilità di usucapione nel caso il costituente non ne abbia la proprietà[xxvi], la eventualità di manomettere gli schiavi dotali divenendone[xxvii]. Inoltre gli schiavi dotali istituiti eredi o gratificati di un legato possono acquistare solo a seguito di iussus del marito e nel suo interesse[xxviii].
In apparente contrasto con questi dati si pongono alcune fonti (e non sono poche) nelle quali si prospetta l’appartenenza della dote alla moglie[xxix], tanto che un giurista dell’ultimo periodo della giurisprudenza romana riassumeva la situazione con l’affermazione che la dote, pur nel patrimonio del marito, in realtà apparteneva alla moglie:
- 23. 3. 75, Tryph, 6 Disputationum: Quamvis in bonis mariti dos sit, mulieris tamen est: et merito placuit, ut si fundum inaestimatum dedit cuius nomine duplae stipulatione cautum habuit, isque marito evictus sit, statim earn ex stipulatione agere posse …[xxx].
L’aporia in realtà riflette le convinzioni che via via si andavano radicando anche nel diritto e riflettevano il dovere del marito di destinare i beni ad esclusivo vantaggio del matrimonio: dovere, peraltro, rimesso alla valutazione del Tribunale domestico e sulla cui osservanza vigilavano i Censori. Con l’affievolirsi della famiglia agnatizia si delineò una nuova disciplina, la quale, attraverso progressive limitazioni dei poteri del marito, lo trasformò più in un amministratore che non nell’effettivo ed incontrollato proprietario, quale era stato in origine.
Il processo conobbe la prima efficace tappa con l’introduzione (avvenuta forse nella seconda metà del 2° sec. d. C.) dell’actio rei uxoriae, l’azione che consentiva alla moglie (o al di lei padre, con il suo consenso) di chiedere la restituzione della dote in caso di scioglimento del matrimonio. Già il nome dell’azione alludeva all’appartenenza della dote alla donna.
A quel punto le possibilità che la moglie potesse riottenere la dote, in caso scioglimento del matrimonio, erano due:
- se vi era stata una promessa di restituzione, essa poteva essere richiesta con l’azione nascente dalla promessa (actio ex stipulatu). In tal caso il marito doveva dare tutto ciò che aveva ricevuto, salvo che fossero intervenuti eventi fortuiti o di forza maggiore, i quali avessero causato il perimento di parte o di tutti i beni dotali. Era possibile che nella stipulazione si inserisse una valutazione della dote (aestimatio dotis): in tal caso doveva essere restituito l’intero ammontare della dote, senza tener conto di eventuali perdite, anche se del tutto indipendenti dal marito.
- In ogni caso, la restituzione poteva essere chiesta con l’actio rei uxoriae. Questa era nata come azione a protezione della situazione di fatto (actio in factum) e, per intervento dei giureconsulti, si era trasformata in azione di diritto (actio in ius), avente una struttura particolare, la quale l’avvicinava alle azioni di buona fede (iudicia bonae fidei), per il fatto che il giudice doveva attribuire all’attore non necessariamente l’ammontare della dote, bensí quello che a suo giudizio gli sembrava equo che l’istante dovesse conseguire (id quod melius equus erit).
Per questo motivo il giudice consentiva al marito di sottrarre dall’intero ammontare della dote alcune spese sopportate durante il matrimonio. Queste spese dovevano essere motivate ed erano poi liberamente valutate dal giudice. La giurisprudenza semplificò il compito del giudice elaborando una casistica di riferimento, alla quale egli poteva attenersi, la quale (ad esempio) prevedeva il diffalco (retentio): delle spese per il mantenimento e l’educazione dei figli (propter liberos), nei limiti di un sesto per figlio e al massimo fino alla metà della dote, spettante nel caso di matrimonio sciolto per iniziativa del pater familias della moglie o per divorzio imputabile alla moglie. Questo complesso sistema di retentiones fu eliminato da Giustiniano[xxxi].
L’a. rei uxoriae, in caso di morte della moglie, poteva essere esperita dal suo paterfamilias e non era trasmissibile agli eredi, nel caso di dos profecticia. Morto il padre, la dote restava al marito. Nel caso di morte del marito o di divorzio l’azione spettava alla moglie, se sui iuris, o al suo pater, se alieni iuris, con il vincolo di esercitarla solo assieme alla figlia (adiuncta filiae persona)[xxxii]. Se la moglie fosse morta dopo il divorzio l’azione non poteva essere esperita dal pater , né passava agli eredi della uxor. Questo dimostra che il diritto alla restituzione fu considerato un diritto personale della donna.
L’actio rei uxoriae era in ogni caso limitata dal beneficium competentiae, a causa del quale il marito non poteva essere condannato a dare quello che non poteva pagare. Proprio per questo motivo si poteva verificare un paradosso, consistente nel fatto che la donna avrebbe ottenuto massima protezione nei confronti del marito accorto, il quale avesse gestito bene la dote ed il proprio patrimonio, mentre restava priva di tutela nei confronti del marito scialacquatore, il quale avesse dissipato i propri beni ed il patrimonio dotale. Pertanto si avertí la lacuna di questa normativa ed il bisogno di una forma più incisiva di tutela delle aspettative della moglie; ad essa provvide Augusto con la lex Iulia de fundo dotali, del 18 a. C. (forse un capitolo della lex Iulia de adulteriis). Con tale provvedimento fu introdotto il divieto per il marito di alienare i fondi, senza il consenso della moglie. L’accorgimento era riferito al fondo dotale (dotale praedium) e si discusse se riguardasse tutti i fondi o solamente i fondi italici[xxxiii]. Giustiniano eliminò ogni dubbio e rese generale e tassativo il divieto, spingendosi sino a non consentire mai l’alienazione dei fondi; neanche con il consenso della moglie[xxxiv].
Ma già la disposizione voluta da Augusto (a tutela dei matrimoni) era stata sconvolgente, in quanto invertí i rapporti tra i coniugi, facendo in modo che da allora in poi il marito, il quale in precedenza era stato l’arbitro assoluto del destino della moglie, ora dipendesse dalla moglie e che alla prima occasione di una dote più cospicua decidesse di divorziare. Inoltre le donne, prima passive, ora, sicure di potere fare affidamento sulla propria dote, cominciarono sempre di più a prendere esse stesse l’iniziativa del divorzio[xxxv], frustrando l’intenzione dell’Imperatore, il quale aveva inteso salvaguardare le doti per rendere più stabile i matrimoni, allo scopo di assicurare la procreazione[xxxvi].
Le vicende della dote nel diritto romano sono un esempio della ricerca e di soluzioni proiettate verso l’inserimento sociale dell’uomo nella comunità di appartenenza; la quale finisce per essere l’umanità, con i suoi livelli di organizzazione (famiglia, Repubblica), secondo un ordine non disponibile, della vita e della società umana.
Le vicende della dote nel corso della storia sono state varie.
A fronte delle società che già nell’antichità prevedevano una disciplina inversa, avvertendo che spettasse al marito e alla sua famiglia pagare per ottenere una ragazza in matrimonio, uso ancora presente in alcune società[xxxvii], nei contesti influenzati dal diritto romano si è a lungo conservato l’uso di dotare le spose e la dote era presente in quasi tutti i codici contemporanei; particolarmente da quelli derivati (direttamente o indirettamente) dal Code Napoléon e nel mondo islamico, dove, però era conferita dal marito[xxxviii]. Oggi è scomparsa o in via di estinzione: ad esempio nel 1975[xxxix] nel codice civile italiano è stato introdotto il divieto di costituzione della dote, sotto qualsiasi forma; art. 166 bis:
È nulla ogni convenzione che comunque tenda alla costituzione di beni in dote.
In controtendenza si registra la persistenza dell’obbligo, per le donne e le loro famiglie, di conferire la dote nel continente indiano (principalmente in India, Pakistan, Bangladesh) ed in Iran. Esso è tanto forte da costituire uno dei piú frequenti casi di femminicidio, tollerato persino dai tribunali, i quali spesso derubricano l’uccisione (ad esempio, di una nuora che non abbia dato alla suocera il frigorifero, il televisore o la macchina da cucire promessa) in incidente domestico. Contro siffatti crimini aveva tentato di opporsi già l’Impero britannico, ma invano, perché ieri come oggi sono tra i maggiori casi di violenza contro le donne[xl].
Tornando a guardare il cosiddetto Occidente, si può dire che la scomparsa della dote sia frutto della crescente autonomia delle donne e del loro conseguente inserimento nelle società odierne, con possibilità di sviluppo autonomo. Questo ha fatto venir mena la necessità di costituire le doti a donne ormai in grado di provvedere da sé alle necessità proprie e della famiglia.
Ne conseguirebbe, talora, però, una visione deficitario riguardo alla famiglia ed alla filiazione, acuta nei momenti, non infrequenti di grave crisi economica e di mancanza di lavoro; aggravati dall’accentramento quasi esponenziale della ricchezza in mano di sempre piú pochi.
Oggi, mi pare non ci si preoccupi adeguatamente di mettere le persone in condizione di sposarsi e si assiste al tracollo delle nascite ad al progressivo invecchiamento delle popolazioni. Si favorisce (quando si favorisce …) l’inserimento nel mondo del lavoro (il quale, per i più, è la fonte del sostentamento), ma manca una politica diretta in modo specifico a porre a disposizione dei nubendi quanto necessario affinché addivengano al matrimonio e per incentivare la procreazione: con qualche eccezione, come quella della Polonia[xli]. Per lo piú si affida l’aiuto alla famiglia alle politiche sociali in relazione al lavoro. In tal senso si orientano diversi provvedimenti miranti a facilitare (tramite appositi congedi) l’assenza retribuita dal lavoro dei genitori allo scopo di allevare la prole. In questa direzione si muove la direttiva (UE) 2019/1158 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 20 giugno 2019, relativa all’equilibrio tra attività professionale e vita familiare per i genitori e i prestatori di assistenza. Anche da questa ottica parte, in Italia, il Decreto Legislativo n. 105, del 30 giugno 2022, il quale si inserisce nel cosiddetto Family Act (Legge 32/2022) contenente misure di sostegno all’educazione dei figli, tra cui contributi alle famiglie per la copertura (anche totale) del costo delle rette per la frequenza dei servizi educativi per l’infanzia e degli asili, rimborsi sull’acquisto dei libri e per le attività sportive-culturali. Maggiore singolarità e incidenza poi mira ad avere l’Assegno Unico Universale, introdotto, già nel 2021 ed entrato in vigore a Marzo 2022, con il Decreto Legislativo 230/2021. In esso si prevede direttamente prevede un sostegno alle famiglie per ogni figlio/a minorenne a carico, ogni figlio/a disabile senza limiti di età, per figlie/i fino ai 21 anni di età in condizioni specifiche (es. in caso di disoccupazione registrata o partecipazione a un corso di formazione). Degno di nota è che è garantito a tutte le famiglie, indipendentemente dalla condizione lavorativa dei genitori, ed è definito sulla base di soglie ISEE (che. A dir il vero, sono piuttosto basse e sfavoriscono le famiglie con lavoro dipendente)[xlii].
Oggi, peraltro, vi sono nuovi possibili scenari, con i quali sempre piú velocemente siamo chiamati a confrontarci: occorrerà fare i conti con l’invadente, ma anche irrefrenabile, avanzamento delle IA (Intelligenze Artificiali), che, come è stato scritto, rendono inutili ‘le persone’ e desueta l’istituzione della Famiglia[xliii]. Ma su ciò occorrerà un discorso a parte.
[i] Per la bibl. rinvio al mio Pubes e viripotens cit., cui adde G. Pugliese, Istituzioni di diritto romano (Padova 1986) 440 s.
[ii] Dionigi di Alicarnasso (2. 10. 2) ricordava che, per evitare che le ragazze restassero senza dote, era stato imposto ai clientes di concorrere alla formazione delle doti a favore delle figlie dei patroni che non avessero avuto mezzi sufficienti: sul punto, F. Serrao, Diritto privato economia e società nella storia di Roma – Prima parte -, Jovene, Napoli 1984, p. 193.
[iii] Aulularia 191 ss.; Trinummus 688 ss.
[iv] Esso consisté nella concessione di privilegium exigendi, che tutelava il beneficiario di là dalla volontà del debitore: v., anche per la bibliografia essenziale, il mio Pubes cit., p. 18442.
[v] (Tr.: alla Repubblica interessa che le donne abbiano salva la propria dote, perché è per mezzo di essa che possono sposarsi).
[vi] (Tr.: è infatti di interesse della Repubblica che anche questa (si riferiva alla minore di 12 anni) consegua il patrimonio, in modo che possa sposarsi quando l’età lo consenta).
[vii] (Tr.: La causa delle doti è sempre ed ovunque particolare: infatti è di pubblico interesse che le donne conservino le doti, essendo oltremodo necessario che le donne siano dotate per procreare e riempire la città di figli). Sul legame tra la dote e l’interesse della Repubblica v. M. Casola, Interesse rei publicae alla salvezza della dote, in Ionicae Disputationes – Umo e ambiente. II incontro ionico-polacco – Taranto 17-20 settembre 2007, Taranto, 2008, p. 187 s.
[viii] D. 23. 3. 74, Hermog. 5 epit.: Si sponsa dotem dederit nec nupserit vel minor duodecim annis ut uxor habeatur, exemplo dotis condictioni favoris ratione privilegium, quod inter personales actiones vertitur, tribui placuit; D. 42. 5. 17. 1, Ulp. 63 ad ed.: Si sponsa dedit dotem et nuptiis renuntiatum est, tametsi ipsa dotem condicit, tamen aequum est hanc ad privilegium admitti, licet nullum matrimonium contractum est: idem puto dicendum etiam, si minor duodecim annis in domum quasi uxor deducta sit, licet nondum uxor sit; D. 46. 2. 29, Paul. 24 quaest:. Aliam causam esse novationis voluntariae, aliam iudicii accepti multa exempla ostendunt. perit privilegium dotis et tutelae, si post divortium dos in stipulationem deducatur vel post pubertatem tutelae actio novetur, si id specialiter actum est: quod nemo dixit lite contestata: neque enim deteriorem causam nostram facimus actionem exercentes, sed meliorem, ut solet dici in his actionibus, quae tempore vel morte finiri possunt. Cfr. sui privilegia M. Kaser, Das römisches Zivilprozessrecht, München 1996, 402 ss.
[ix] M. Terentius Varro, nato a Rieti nel 116 a. C., contemporaneo di Cicerone, scrisse sulle origini delle parole nel De lingua latina.
[x] V. C. Sanfilippo, Corso di diritto romano – La dote, Catania 1959, 8.
[xi] (La dote deve stare dove stanno i pesi del matrimonio). L’affermazione del giurista verosimilmente era inserita in una discussione sull’attribuzione della dote al padre ed ai suoi eredi o al figlio-marito della donna che aveva costituito la dote. Il giurista, al § successivo, precisava che in caso di morte la dote non seguiva la sorte del patrimonio del pater, ma passava al figlio-marito, perché aveva propria autonomia dovuta alla destinazione al sostegno del matrimonio e non seguiva la sorte degli altri beni del pater: Post mortem patris statim onera matrimonii filium sequuntur, sicut liberi, sicut uxor.
[xii] Esso è stato scoperto in un papiro inserito nella collezione Bodleiana ed è noto come fragmentum Bodleianum. L’ipotesi ricostruttiva è in C. Fayer, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari. Sponsalia matrimonio dote 2, Roma 2005, 682. Il frammento corrisponde a D. 17. 2. 65. 16, Paul. 32 ad ed.: Si unus ex sociis, maritus sit et distrahatur societas manente matrimonio, dotem maritum praecipere debet, quia apud eum esse debet qui onera sustinet: quod si iam dissoluto matrimonio societas distrahatur, eadem die recipienda est dos, qua et solvi debet. (Se uno dei soci sia marito e la società si sciolga durante il matrimonio, il marito deve prelevare la dote dalla società, perché questa deve essere presso colui che sostiene i pesi del matrimonio; che, se la società si rompe quando già si è sciolto il matrimonio, la dote deve essere prelevata, nel medesimo giorno in cui deve essere pagata (restituita alla moglie).
[xiii] C. Sanfilippo, Corso di diritto romano – La dote cit., 17 ss.
[xiv] V. supra D. 24. 3. 1, Pomp. 15 ad Sab.
[xv] D. 23. 3. 17, Paul. 7 ad Sab.: In rebus dotalibus virum prestare oportet tam dolum quam culpam, quia causa sua dotem accipit: sed etiam diligentiam praestabit, quam in suis rebus exhibet (Nelle cose dotali il marito è tenuto tanto per dolo quanto per colpa, perché ha ricevuto la dote per utile suo: ma sarà tenuto anche per quella diligenza che usa per le sue cose): cfr. S. Tafaro, Regula e ius antiquum in D. 50. 17. 23. ricerche sulla responsabilità contrattuale, Bari 1984, 12672, 266103; 97 ss.; De robertis, La responsabilità contrattuale nel sistema della grande compilazione I, Bari 1981, 46 ss.
[xvi] P. Moriaud, Du consentement du père de famille au mariage en droit classique, in Mélanges Girard, Paris 1912, 291 ss.; F. Stella Maranca, Dos necessaria, II, in AUBA, 1929, 9 ss.
[xvii] B. Biondi, Istituzioni di diritto romano, Milano 1972, 592 ss; R. Astolfi, La lex Julia et Papia, Padova 1996, pp. 150 ss.
[xviii] G. Castelli, Intorno all’origine dell’obbligo di dotare in diritto romano, in BIDR, 26, 1913, 164 ss.; P. Bonfante, Corso di diritto romano cit., 405 ss.; E. Albertario, Promessa generica e legato generico di dote, in Mélanges de droit romain, Milano 1925; C. Sanfilippo, Corso di diritto romano cit., 45 ss.
[xix] (Secondo il capitolo 35° della legge Giulia, coloro che abbiano proibito senza giusta causa che i figli che hanno in potestà prendano moglie o marito, oppure coloro che non vogliono costituire la dote, in forza di una costituzione dei divinizzati (Settimio) Severo e Antonino (Caracalla), vengono costretti dai proconsoli e dai governatori delle province a provvedere al matrimonio e a costituire la dote. Infatti sembra proibire (il matrimonio) anche colui che non procura un buon partito).
[xx] P. Moriaud, Du consentement du père de famille au mariage cit., 303.
[xxi] D. 37. 6. 6, Cels. 1 Digestorum: Dotem, quam dedit avus paternus, an post mortem avi, mortua in matrimonio filia, patri reddi oporteat, quaeritur. Occurrit aequitas rei, ut, quod pater meus propter me filiae meae nomine dedit, perinde sit atque ipse dederim: quippe officium avi circa neptem ex officio patris erga filium pendet et quia pater filiae, ideo avus propter filium nepti dotem dare debet. Quid si filius a patre exheredatus est? Existimo non absurde etiam in exheredato filio idem posse defendi, nec infavorabilis sententia est, ut hoc saltem habeat ex paternis, quod propter ilium datum est. (Si domanda se la dote, che diede l’avo paterno, morta la figlia durante il matrimonio, dopo la morte dell’avo, debba essere restituita al padre. Viene in aiuto l’equità: perché ciò che mio padre ha dato per mio conto nell’interesse di mia figlia, è come se io stesso l’abbia dato: in quanto il dovere dell’avo nei confronti della nipote dipende dal dovere del padre nei confronti del figlio e perché il padre deve dare la dote alla figlia, pertanto l’avo per conto del figlio la deve dare alla nipote. E se il figlio è stato diseredato dal padre? Ritengo che non sia insensato che la medesima soluzione possa essere applicata anche nei confronti del figlio diseredato, né si debba pronunziare parere sfavorevole affinché egli riceva dei beni paterni per lo meno quanto per suo conto è stato dato).
[xxii] (Infatti non si ignorano le leggi che hanno stabilito che ad ogni modo è dovere del padre dare ai propri figli la dote o la donazione nuziale).
[xxiii] V. Tit. Ulp. 6. 4-5. cfr. M. Marrone, Istituzioni di diritto romano cit., 236 s.
[xxiv] D. 15. 1. 47. 6, Paul. 4 ad Plaut.: Quae diximus in emptore et venditore eadem sunt et si alio quovis genere dominium mutatum sit, ut legato, dotis datione, … (Le medesime cose che abbiamo detto per il compratore e il venditore valgono se in qualsiasi altro modo cambia il titolare del diritto di proprietà, come nel caso del legato, della datio dotis, … ). D. 23. 5. 13. 2, Ulp. 5 de adulteriis: Dotale praedium sic accipimus, cum domunium marito quaesitum est: ut tunc demum alienatio prohibeatur (Diventa dotale il fondo quando il marito ne acquista la proprietà ; ed in quel tempo diventa inalienabile). Il marito può agire in giudizio con tutte le azioni che spettano al proprietario. Per la sottrazione delle cose dotali viene riconosciuta al marito contro la moglie la rei vindicatio (l’azione che secondo il ius civile compete esclusivamente al proprietario) o alternativamente l’azione personale (condictio): D. 25. 2. 24, Ulp. 5 regularum: Ob res amotas, vel proprias viri vel etiam dotales, tam vindicatio quam condictio viro adversus mulierem competit, et in potestate est, qua velit actione uti (Per le cose sottratte, sia proprie del marito, sia dotali, compete al marito contro la moglie sia la rei vindicatio che l’azione personale (condictio), ed è in suo potere decidere quale azione utilizzare). Al marito vengono concesse anche l’actio furti e l’actio legis Aquiliae, che egli, se esente da dolo e colpa, potrà cedere alla moglie: D. 24. 3. 18. 1, Pomp. 16 ad Sabinum: … Ceterum si circa interitum rei dotalis dolus malus et culpa mariti absit, actiones solas, quas eo nomine quasi maritus habet, praestandas mulieri, veluti furti vel damni iniuriae ( … Per il resto, se per la perdita della cosa dotale non vi sia dolo o colpa del marito, le sole azioni che quasi a tal titolo ha il marito, debbono cedersi alla donna: come l’azione di furto e l’azione per danno ingiusto).
[xxv] D. 23. 5. 1; D. 41. 1.62.
[xxvi] D. 23. 3. 7. 3; Gai. 2, 63; D. 41. 9.
[xxvii] D. 24. 3. 61; D. 24. 3. 62; D. 24. 3. 63; D. 24. 3. 64.
[xxviii] D. 15. 1. 19. 1; D. 23. 3. 65.
[xxix] D. 4. 4. 3. 5, Ulp. 11 ad ed.: Ergo etiam filiamfamilias in dote captam, dum patri consentit stipulanti, dotem non statim, quam dedit, vel adhibendi aliquem, qui dotem stipularetur, puto restituedam: quoniam dos ipsius fliae proprium patrimonium est.’ (Dunque ritengo che debba ancora restituirsi in intero la figlia ingannata riguardo alla dote, mentre consente al padre stipulante la dote che non diede subito, o che adoperava un altro per stipulare la dote: giacché la dote è patrimonio della stessa figlia). D. 11. 7. 16, Ulp. 25 ad edictum: In eum, ad quem dotis nomine quid pervenerit, dat Paetor funerariam actionem: aequissimum enim visum est veteribus, mulieres, quasi de patrimoniis suis, ita de dotibus funerari: et eum, qui morte mulieris dotem lucratur, in funus conferre debere: sive pater mulieris est sive maritus (Contro colui al quale qualcosa pervenne a titolo di dote, il Pretore concede l’azione funeraria. Perché agli antichi parve giustissimo che alle donne di facesse il funerale con le doti, come dal proprio patrimonio: e colui che lucra la dote con la morte della donna, debba conferire per le spese funebri: sia che sia il padre, sia che sia il marito della donna). D. 23. 3. 2. 1, Ulp. 35 ad ed: Quod si in patris potestate est, et dos ab eo profecta sit: ipsius et filiae dos est. Denique pater non aliter, quam ex voluntate filiae petere dotem, nec per se, nec per procuratorem potest (…) (Che se è in potestà del padre e la dote proviene da lui, la dote è del padre e della figlia. Infine, il padre non può domandare la dote altrimenti, che per volontà della figlia, né da sé, né attraverso un procuratore … ).
[xxx] (Nonostante la dote sia tra i beni del marito, tuttavia è della donna: ed a ragione si ritenne che, se diede in dote un fondo senza che ne venisse preventivamente stimato il valore, per il quale si ebbe una cauzione stipulata del doppio, e quel fondo sia stato evitto dal marito, la moglie subito può agire secondo lo stipulato. …).
[xxxi] C. I. 5. 13. 1. 5 (a. 530).
[xxxii] Tit. Ulp. 6. 6.
[xxxiii] Lo ricordava Gaio: Gai 2. 63: Nam dotale praedium maritus invita muliere per legem Iuliam prohibetur alienare, quamvis ipsius sit, vel mancipatum ei dotis causa vel in iure cessum vel usucaptum. quod quidem ius utrum ad italica tantum praedia an etiam ad provincialia pertineat, dubitatur (infatti, a norma della legge Giulia è fatto divieto di alienare il fondo dotale contro la volontà della moglie, anche se esso è suo per essergli stato mancipato a titolo di dote o ceduto in iure o perché lo ha usucapito. Si discute se questa norma valga esclusivamente per i fondi italici o sia pplicabile anche a quelli provinciali). Lo confermava Paolo: Pauli Sententiae 2. 21b. 2: Lege Iulia de adulteriis cavetur, ne dotale praedium maritus invita uxore alienet (Attraverso la legge Giulia de adulteriis si assicura che il marito non alieni il fondo dotale contro la volontà della moglie). Infine lo ricordava Giustiniano, il quale prendeva posizione ribadendo che il divieto dovesse concernere tutti i fondi (anche perchè al suo tempo era stata superati i motivi della distinzione tra fondi italici e fondi provinciali, unificati in un’unica disciplina): C.I. 5. 13. 15. 1: Et cum lex Julia fundi dotalis Italici alienationem prohibebat fieri a marito non consentiente muliere, hypothecam autem nec si mulier consentiebat, interrogati sumus si oportet huiusmodi sanctionem non super Italicis tantummodo fundis, sed pro omnibus locum habere. Placet itaque nobis eandem obsevationem non tantum in Italicis fundis, sed etiam in provincialibus extendi. Cum autem hypothecam etiam ex hac lege donavimus, sufficiens habet remedium mulier, et si maritus fundum alienare voluerit (E dato che la legge Giulia vietava che il fondo Italico fosse alienato dal marito senza il consenso della moglie, e vietava l’ipoteca anche con il consenso della moglie, ci è stato chiesto se è necessario prevedere il medesimo divieto non solo per i fondi Italici, ma per tutti i fondi. Per questo riteniamo che la medesima previsione debba valere non solo per i fondi Italici, ma debba essere estesa anche ai fondi provinciali. Avendo dato con questa legge anche un’ipoteca alla moglie, ella ha un rimedio efficace anche nel caso in cui il marito voglia alienare il fondo).
[xxxiv] C. I. 5. 13. 1. 15b.
[xxxv] In proposito, v. le penetranti osservazioni di J. Carcopino, La vita quotidiana a Roma, cit., pp.116 ss.
[xxxvi] Dello stretto legame visto da augusto tra dote e procreazione è testimonianza una sua decisione, presa extra ordinem, riferitaci dal Valerio Massimo, con la quale negò che i beni apportati in dote da una donna che si era sposata con un vecchio, allo scopo di non lasciare i propri beni ai figli (verso i quali nutriva grande odio) potessero in effetti costituire un caso di dote, perché non vi era la possibilità di procreazione: Val. Max. 7. 7. 4: Septiciam quoque mater Trachalorum Ariminiensium, irata fliis, in contumeliam eorum, cum iam parére non posset, Publicio seni admodum nupsit, testamento etiam utroque praeterito. A quibus aditus divus Augustus et nuptias mulieris et suprema iudicia improbavit: nam hareditatem maternam filios habere iussit, dotem, quia non creandorum liberorum causa coniugium intercesserat, virum retinere vetuit (Una tale Septicia, madre dei Tracali Riminese, in collera con i figli, in odio ai medesimi, pur non potendo più avere figli, si sposò con un vecchio di nome Publicio, trascurando inoltre di menzionare nel testamento entrambi i figli. L’imperatore Augusto adito dai figli riprovò sia le nozze che le ultime volontà della madre: quindi ordinò che l’eredità fosse assegnata ai figli e vietò che il marito trattenesse la dote, perché non poteva esistere in quel matrimonio il fine della procreazione).
[xxxvii] Cfr. la voce prezzo della sposa, in Wikipedia, al sito https://it.wikipedia.org/wiki/Prezzo_della_sposa: “Il prezzo della sposa (in inglese brideprice), presso talune società e culture, è la compensazione matrimoniale versata dallo sposo, o dal suo gruppo familiare, alla sposa o al suo gruppo familiare. È un tipo di transazione inversa rispetto alla dote: quest’ultima infatti implica il passaggio dei beni della sposa, o del suo gruppo familiare, allo sposo o al suo gruppo familiare”.
[xxxviii] Nel mondo pre-islamico era il prezzo che il marito pagava al padre. Nella shari’a la dote è una somma che viene versata dal marito alla donna, secondo le parole del Profeta: “E date alle vostre spose la loro dote. Se graziosamente esse ve ne cedono una parte, godetevela pure e che vi sia propizia”; cfr. il sito: https://www.notaiobonomo.torino.it/guida-sul-diritto-musulmano-dei-paesi-islamici-2/
[xxxix] Con l’art. 47, l. 19-5-1975, n. 151 (Riforma del diritto di famiglia).
[xl] V., Mira Seth, Women and Development. The Indian Experience, Sage, New Delhi – London 2009, pp. 332 ss.
[xli] Dal 2016 in Polonia, è stato varato il piano Famiglia 500 + che prevede assegni per tutti i figli, a partire dai secondogeniti. Il sussidio, per il quale non è prevista tassazione, è di 500 zloty mensili (circa 130 euro) per figlio fino alla maggiore età, indipendentemente dai requisiti di reddito. Una cifra considerevole, se si tiene conto che il costo della vita in Polonia è piuttosto basso. Il programma Famiglia 500+ prevedeva sussidi anche per il primo figlio, nel caso in cui questo fosse disabile o il reddito familiare complessivo non fosse superiore agli 800 zloty. Alla fine di gennaio 2018, a meno di due anni dall’adozione del provvedimento, erano già 3 milioni e mezzo i minori che godevano della copertura, equivalenti al 53% dei bambini e dei ragazzi di età inferiore ai 18 anni. Vanno evidenziate le ricadute positive del ‘piano’. Invero, esso ha prodotto da subito effetti positivi sulla crescita demografica. Alla fine del 2016, i nuovi nati in Polonia sono stati 382.300, quindi 12.900 in più rispetto all’anno precedente, con un aumento del tasso di fertilità da 1,31 a 1,36. Inoltre, le nuove politiche familiari polacche hanno avuto un impatto favorevole anche sull’economia, facendo registrare nel 2017 aumenti del 31% nell’acquisto di abbigliamento, del 29% nell’acquisto di scarpe, del 22% nella fruizione delle vacanze, del 22% nelle spese scolastiche e del 20% nelle spese extrascolastiche.
[xlii] L’assegno va da un minimo di € 50/mese a un massimo di € 175/mese per ogni figlio minorenne a carico. Per i figli a carico di età tra i 18 e i 21 anni, gli importi variano da un minimo di € 25/mese a un massimo di € 85/mese. Va anche detto che l’assegno unico universale sostituisce i benefici esistenti, tra cui gli assegni familiari e il premio alla nascita o adozione, e assorbe le detrazioni per figli a carico fino ai 21 anni.
[xliii] Della questione, che rappresenta una delle piú pressanti tematiche del presente e, maggiormente, del futuro non posso occuparmi qui. Rinvio, tra i tanti, a J. Kaplan; Le persone non servono. Lavoro e ricchezza nell’epoca dell’intelligenza artificiale – trad. I.V. Tomasello, Luiss University Press, Roma 2016.
[1] Per la bibl. rinvio al mio Pubes e viripotens cit., cui adde G. Pugliese, Istituzioni di diritto romano (Padova 1986) 440 s.
[1] Dionigi di Alicarnasso (2. 10. 2) ricordava che, per evitare che le ragazze restassero senza dote, era stato imposto ai clientes di concorrere alla formazione delle doti a favore delle figlie dei patroni che non avessero avuto mezzi sufficienti: sul punto, F. Serrao, Diritto privato economia e società nella storia di Roma – Prima parte -, Jovene, Napoli 1984, p. 193.
[1] Aulularia 191 ss.; Trinummus 688 ss.
[1] Esso consisté nella concessione di privilegium exigendi, che tutelava il beneficiario di là dalla volontà del debitore: v., anche per la bibliografia essenziale, il mio Pubes cit., p. 18442.
[1] (Tr.: alla Repubblica interessa che le donne abbiano salva la propria dote, perché è per mezzo di essa che possono sposarsi).
[1] (Tr.: è infatti di interesse della Repubblica che anche questa (si riferiva alla minore di 12 anni) consegua il patrimonio, in modo che possa sposarsi quando l’età lo consenta).
[1] (Tr.: La causa delle doti è sempre ed ovunque particolare: infatti è di pubblico interesse che le donne conservino le doti, essendo oltremodo necessario che le donne siano dotate per procreare e riempire la città di figli). Sul legame tra la dote e l’interesse della Repubblica v. M. Casola, Interesse rei publicae alla salvezza della dote, in Ionicae Disputationes – Umo e ambiente. II incontro ionico-polacco – Taranto 17-20 settembre 2007, Taranto, 2008, p. 187 s.
[1] D. 23. 3. 74, Hermog. 5 epit.: Si sponsa dotem dederit nec nupserit vel minor duodecim annis ut uxor habeatur, exemplo dotis condictioni favoris ratione privilegium, quod inter personales actiones vertitur, tribui placuit; D. 42. 5. 17. 1, Ulp. 63 ad ed.: Si sponsa dedit dotem et nuptiis renuntiatum est, tametsi ipsa dotem condicit, tamen aequum est hanc ad privilegium admitti, licet nullum matrimonium contractum est: idem puto dicendum etiam, si minor duodecim annis in domum quasi uxor deducta sit, licet nondum uxor sit; D. 46. 2. 29, Paul. 24 quaest:. Aliam causam esse novationis voluntariae, aliam iudicii accepti multa exempla ostendunt. perit privilegium dotis et tutelae, si post divortium dos in stipulationem deducatur vel post pubertatem tutelae actio novetur, si id specialiter actum est: quod nemo dixit lite contestata: neque enim deteriorem causam nostram facimus actionem exercentes, sed meliorem, ut solet dici in his actionibus, quae tempore vel morte finiri possunt. Cfr. sui privilegia M. Kaser, Das römisches Zivilprozessrecht, München 1996, 402 ss.
[1] M. Terentius Varro, nato a Rieti nel 116 a. C., contemporaneo di Cicerone, scrisse sulle origini delle parole nel De lingua latina.
[1] V. C. Sanfilippo, Corso di diritto romano – La dote, Catania 1959, 8.
[1] (La dote deve stare dove stanno i pesi del matrimonio). L’affermazione del giurista verosimilmente era inserita in una discussione sull’attribuzione della dote al padre ed ai suoi eredi o al figlio-marito della donna che aveva costituito la dote. Il giurista, al § successivo, precisava che in caso di morte la dote non seguiva la sorte del patrimonio del pater, ma passava al figlio-marito, perché aveva propria autonomia dovuta alla destinazione al sostegno del matrimonio e non seguiva la sorte degli altri beni del pater: Post mortem patris statim onera matrimonii filium sequuntur, sicut liberi, sicut uxor.
[1] Esso è stato scoperto in un papiro inserito nella collezione Bodleiana ed è noto come fragmentum Bodleianum. L’ipotesi ricostruttiva è in C. Fayer, La familia romana. Aspetti giuridici ed antiquari. Sponsalia matrimonio dote 2, Roma 2005, 682. Il frammento corrisponde a D. 17. 2. 65. 16, Paul. 32 ad ed.: Si unus ex sociis, maritus sit et distrahatur societas manente matrimonio, dotem maritum praecipere debet, quia apud eum esse debet qui onera sustinet: quod si iam dissoluto matrimonio societas distrahatur, eadem die recipienda est dos, qua et solvi debet. (Se uno dei soci sia marito e la società si sciolga durante il matrimonio, il marito deve prelevare la dote dalla società, perché questa deve essere presso colui che sostiene i pesi del matrimonio; che, se la società si rompe quando già si è sciolto il matrimonio, la dote deve essere prelevata, nel medesimo giorno in cui deve essere pagata (restituita alla moglie).
[1] C. Sanfilippo, Corso di diritto romano – La dote cit., 17 ss.
[1] V. supra D. 24. 3. 1, Pomp. 15 ad Sab.
[1] D. 23. 3. 17, Paul. 7 ad Sab.: In rebus dotalibus virum prestare oportet tam dolum quam culpam, quia causa sua dotem accipit: sed etiam diligentiam praestabit, quam in suis rebus exhibet (Nelle cose dotali il marito è tenuto tanto per dolo quanto per colpa, perché ha ricevuto la dote per utile suo: ma sarà tenuto anche per quella diligenza che usa per le sue cose): cfr. S. Tafaro, Regula e ius antiquum in D. 50. 17. 23. ricerche sulla responsabilità contrattuale, Bari 1984, 12672, 266103; 97 ss.; De robertis, La responsabilità contrattuale nel sistema della grande compilazione I, Bari 1981, 46 ss.
[1] P. Moriaud, Du consentement du père de famille au mariage en droit classique, in Mélanges Girard, Paris 1912, 291 ss.; F. Stella Maranca, Dos necessaria, II, in AUBA, 1929, 9 ss.
[1] B. Biondi, Istituzioni di diritto romano, Milano 1972, 592 ss; R. Astolfi, La lex Julia et Papia, Padova 1996, pp. 150 ss.
[1] G. Castelli, Intorno all’origine dell’obbligo di dotare in diritto romano, in BIDR, 26, 1913, 164 ss.; P. Bonfante, Corso di diritto romano cit., 405 ss.; E. Albertario, Promessa generica e legato generico di dote, in Mélanges de droit romain, Milano 1925; C. Sanfilippo, Corso di diritto romano cit., 45 ss.
[1] (Secondo il capitolo 35° della legge Giulia, coloro che abbiano proibito senza giusta causa che i figli che hanno in potestà prendano moglie o marito, oppure coloro che non vogliono costituire la dote, in forza di una costituzione dei divinizzati (Settimio) Severo e Antonino (Caracalla), vengono costretti dai proconsoli e dai governatori delle province a provvedere al matrimonio e a costituire la dote. Infatti sembra proibire (il matrimonio) anche colui che non procura un buon partito).
[1] P. Moriaud, Du consentement du père de famille au mariage cit., 303.
[1] D. 37. 6. 6, Cels. 1 Digestorum: Dotem, quam dedit avus paternus, an post mortem avi, mortua in matrimonio filia, patri reddi oporteat, quaeritur. Occurrit aequitas rei, ut, quod pater meus propter me filiae meae nomine dedit, perinde sit atque ipse dederim: quippe officium avi circa neptem ex officio patris erga filium pendet et quia pater filiae, ideo avus propter filium nepti dotem dare debet. Quid si filius a patre exheredatus est? Existimo non absurde etiam in exheredato filio idem posse defendi, nec infavorabilis sententia est, ut hoc saltem habeat ex paternis, quod propter ilium datum est. (Si domanda se la dote, che diede l’avo paterno, morta la figlia durante il matrimonio, dopo la morte dell’avo, debba essere restituita al padre. Viene in aiuto l’equità: perché ciò che mio padre ha dato per mio conto nell’interesse di mia figlia, è come se io stesso l’abbia dato: in quanto il dovere dell’avo nei confronti della nipote dipende dal dovere del padre nei confronti del figlio e perché il padre deve dare la dote alla figlia, pertanto l’avo per conto del figlio la deve dare alla nipote. E se il figlio è stato diseredato dal padre? Ritengo che non sia insensato che la medesima soluzione possa essere applicata anche nei confronti del figlio diseredato, né si debba pronunziare parere sfavorevole affinché egli riceva dei beni paterni per lo meno quanto per suo conto è stato dato).
[1] (Infatti non si ignorano le leggi che hanno stabilito che ad ogni modo è dovere del padre dare ai propri figli la dote o la donazione nuziale).
[1] V. Tit. Ulp. 6. 4-5. cfr. M. Marrone, Istituzioni di diritto romano cit., 236 s.
[1] D. 15. 1. 47. 6, Paul. 4 ad Plaut.: Quae diximus in emptore et venditore eadem sunt et si alio quovis genere dominium mutatum sit, ut legato, dotis datione, … (Le medesime cose che abbiamo detto per il compratore e il venditore valgono se in qualsiasi altro modo cambia il titolare del diritto di proprietà, come nel caso del legato, della datio dotis, … ). D. 23. 5. 13. 2, Ulp. 5 de adulteriis: Dotale praedium sic accipimus, cum domunium marito quaesitum est: ut tunc demum alienatio prohibeatur (Diventa dotale il fondo quando il marito ne acquista la proprietà ; ed in quel tempo diventa inalienabile). Il marito può agire in giudizio con tutte le azioni che spettano al proprietario. Per la sottrazione delle cose dotali viene riconosciuta al marito contro la moglie la rei vindicatio (l’azione che secondo il ius civile compete esclusivamente al proprietario) o alternativamente l’azione personale (condictio): D. 25. 2. 24, Ulp. 5 regularum: Ob res amotas, vel proprias viri vel etiam dotales, tam vindicatio quam condictio viro adversus mulierem competit, et in potestate est, qua velit actione uti (Per le cose sottratte, sia proprie del marito, sia dotali, compete al marito contro la moglie sia la rei vindicatio che l’azione personale (condictio), ed è in suo potere decidere quale azione utilizzare). Al marito vengono concesse anche l’actio furti e l’actio legis Aquiliae, che egli, se esente da dolo e colpa, potrà cedere alla moglie: D. 24. 3. 18. 1, Pomp. 16 ad Sabinum: … Ceterum si circa interitum rei dotalis dolus malus et culpa mariti absit, actiones solas, quas eo nomine quasi maritus habet, praestandas mulieri, veluti furti vel damni iniuriae ( … Per il resto, se per la perdita della cosa dotale non vi sia dolo o colpa del marito, le sole azioni che quasi a tal titolo ha il marito, debbono cedersi alla donna: come l’azione di furto e l’azione per danno ingiusto).
[1] D. 23. 5. 1; D. 41. 1.62.
[1] D. 23. 3. 7. 3; Gai. 2, 63; D. 41. 9.
[1] D. 24. 3. 61; D. 24. 3. 62; D. 24. 3. 63; D. 24. 3. 64.
[1] D. 15. 1. 19. 1; D. 23. 3. 65.
[1] D. 4. 4. 3. 5, Ulp. 11 ad ed.: Ergo etiam filiamfamilias in dote captam, dum patri consentit stipulanti, dotem non statim, quam dedit, vel adhibendi aliquem, qui dotem stipularetur, puto restituedam: quoniam dos ipsius fliae proprium patrimonium est.’ (Dunque ritengo che debba ancora restituirsi in intero la figlia ingannata riguardo alla dote, mentre consente al padre stipulante la dote che non diede subito, o che adoperava un altro per stipulare la dote: giacché la dote è patrimonio della stessa figlia). D. 11. 7. 16, Ulp. 25 ad edictum: In eum, ad quem dotis nomine quid pervenerit, dat Paetor funerariam actionem: aequissimum enim visum est veteribus, mulieres, quasi de patrimoniis suis, ita de dotibus funerari: et eum, qui morte mulieris dotem lucratur, in funus conferre debere: sive pater mulieris est sive maritus (Contro colui al quale qualcosa pervenne a titolo di dote, il Pretore concede l’azione funeraria. Perché agli antichi parve giustissimo che alle donne di facesse il funerale con le doti, come dal proprio patrimonio: e colui che lucra la dote con la morte della donna, debba conferire per le spese funebri: sia che sia il padre, sia che sia il marito della donna). D. 23. 3. 2. 1, Ulp. 35 ad ed: Quod si in patris potestate est, et dos ab eo profecta sit: ipsius et filiae dos est. Denique pater non aliter, quam ex voluntate filiae petere dotem, nec per se, nec per procuratorem potest (…) (Che se è in potestà del padre e la dote proviene da lui, la dote è del padre e della figlia. Infine, il padre non può domandare la dote altrimenti, che per volontà della figlia, né da sé, né attraverso un procuratore … ).
[1] (Nonostante la dote sia tra i beni del marito, tuttavia è della donna: ed a ragione si ritenne che, se diede in dote un fondo senza che ne venisse preventivamente stimato il valore, per il quale si ebbe una cauzione stipulata del doppio, e quel fondo sia stato evitto dal marito, la moglie subito può agire secondo lo stipulato. …).
[1] C. I. 5. 13. 1. 5 (a. 530).
[1] Tit. Ulp. 6. 6.
[1] Lo ricordava Gaio: Gai 2. 63: Nam dotale praedium maritus invita muliere per legem Iuliam prohibetur alienare, quamvis ipsius sit, vel mancipatum ei dotis causa vel in iure cessum vel usucaptum. quod quidem ius utrum ad italica tantum praedia an etiam ad provincialia pertineat, dubitatur (infatti, a norma della legge Giulia è fatto divieto di alienare il fondo dotale contro la volontà della moglie, anche se esso è suo per essergli stato mancipato a titolo di dote o ceduto in iure o perché lo ha usucapito. Si discute se questa norma valga esclusivamente per i fondi italici o sia pplicabile anche a quelli provinciali). Lo confermava Paolo: Pauli Sententiae 2. 21b. 2: Lege Iulia de adulteriis cavetur, ne dotale praedium maritus invita uxore alienet (Attraverso la legge Giulia de adulteriis si assicura che il marito non alieni il fondo dotale contro la volontà della moglie). Infine lo ricordava Giustiniano, il quale prendeva posizione ribadendo che il divieto dovesse concernere tutti i fondi (anche perchè al suo tempo era stata superati i motivi della distinzione tra fondi italici e fondi provinciali, unificati in un’unica disciplina): C.I. 5. 13. 15. 1: Et cum lex Julia fundi dotalis Italici alienationem prohibebat fieri a marito non consentiente muliere, hypothecam autem nec si mulier consentiebat, interrogati sumus si oportet huiusmodi sanctionem non super Italicis tantummodo fundis, sed pro omnibus locum habere. Placet itaque nobis eandem obsevationem non tantum in Italicis fundis, sed etiam in provincialibus extendi. Cum autem hypothecam etiam ex hac lege donavimus, sufficiens habet remedium mulier, et si maritus fundum alienare voluerit (E dato che la legge Giulia vietava che il fondo Italico fosse alienato dal marito senza il consenso della moglie, e vietava l’ipoteca anche con il consenso della moglie, ci è stato chiesto se è necessario prevedere il medesimo divieto non solo per i fondi Italici, ma per tutti i fondi. Per questo riteniamo che la medesima previsione debba valere non solo per i fondi Italici, ma debba essere estesa anche ai fondi provinciali. Avendo dato con questa legge anche un’ipoteca alla moglie, ella ha un rimedio efficace anche nel caso in cui il marito voglia alienare il fondo).
[1] C. I. 5. 13. 1. 15b.
[1] In proposito, v. le penetranti osservazioni di J. Carcopino, La vita quotidiana a Roma, cit., pp.116 ss.
[1] Dello stretto legame visto da augusto tra dote e procreazione è testimonianza una sua decisione, presa extra ordinem, riferitaci dal Valerio Massimo, con la quale negò che i beni apportati in dote da una donna che si era sposata con un vecchio, allo scopo di non lasciare i propri beni ai figli (verso i quali nutriva grande odio) potessero in effetti costituire un caso di dote, perché non vi era la possibilità di procreazione: Val. Max. 7. 7. 4: Septiciam quoque mater Trachalorum Ariminiensium, irata fliis, in contumeliam eorum, cum iam parére non posset, Publicio seni admodum nupsit, testamento etiam utroque praeterito. A quibus aditus divus Augustus et nuptias mulieris et suprema iudicia improbavit: nam hareditatem maternam filios habere iussit, dotem, quia non creandorum liberorum causa coniugium intercesserat, virum retinere vetuit (Una tale Septicia, madre dei Tracali Riminese, in collera con i figli, in odio ai medesimi, pur non potendo più avere figli, si sposò con un vecchio di nome Publicio, trascurando inoltre di menzionare nel testamento entrambi i figli. L’imperatore Augusto adito dai figli riprovò sia le nozze che le ultime volontà della madre: quindi ordinò che l’eredità fosse assegnata ai figli e vietò che il marito trattenesse la dote, perché non poteva esistere in quel matrimonio il fine della procreazione).
[1] Cfr. la voce prezzo della sposa, in Wikipedia, al sito https://it.wikipedia.org/wiki/Prezzo_della_sposa: “Il prezzo della sposa (in inglese brideprice), presso talune società e culture, è la compensazione matrimoniale versata dallo sposo, o dal suo gruppo familiare, alla sposa o al suo gruppo familiare. È un tipo di transazione inversa rispetto alla dote: quest’ultima infatti implica il passaggio dei beni della sposa, o del suo gruppo familiare, allo sposo o al suo gruppo familiare”.
[1] Nel mondo pre-islamico era il prezzo che il marito pagava al padre. Nella shari’a la dote è una somma che viene versata dal marito alla donna, secondo le parole del Profeta: “E date alle vostre spose la loro dote. Se graziosamente esse ve ne cedono una parte, godetevela pure e che vi sia propizia”; cfr. il sito: https://www.notaiobonomo.torino.it/guida-sul-diritto-musulmano-dei-paesi-islamici-2/
[1] Con l’art. 47, l. 19-5-1975, n. 151 (Riforma del diritto di famiglia).
[1] V., Mira Seth, Women and Development. The Indian Experience, Sage, New Delhi – London 2009, pp. 332 ss.
[1] Dal 2016 in Polonia, è stato varato il piano Famiglia 500 + che prevede assegni per tutti i figli, a partire dai secondogeniti. Il sussidio, per il quale non è prevista tassazione, è di 500 zloty mensili (circa 130 euro) per figlio fino alla maggiore età, indipendentemente dai requisiti di reddito. Una cifra considerevole, se si tiene conto che il costo della vita in Polonia è piuttosto basso. Il programma Famiglia 500+ prevedeva sussidi anche per il primo figlio, nel caso in cui questo fosse disabile o il reddito familiare complessivo non fosse superiore agli 800 zloty. Alla fine di gennaio 2018, a meno di due anni dall’adozione del provvedimento, erano già 3 milioni e mezzo i minori che godevano della copertura, equivalenti al 53% dei bambini e dei ragazzi di età inferiore ai 18 anni. Vanno evidenziate le ricadute positive del ‘piano’. Invero, esso ha prodotto da subito effetti positivi sulla crescita demografica. Alla fine del 2016, i nuovi nati in Polonia sono stati 382.300, quindi 12.900 in più rispetto all’anno precedente, con un aumento del tasso di fertilità da 1,31 a 1,36. Inoltre, le nuove politiche familiari polacche hanno avuto un impatto favorevole anche sull’economia, facendo registrare nel 2017 aumenti del 31% nell’acquisto di abbigliamento, del 29% nell’acquisto di scarpe, del 22% nella fruizione delle vacanze, del 22% nelle spese scolastiche e del 20% nelle spese extrascolastiche.
[1] L’assegno va da un minimo di € 50/mese a un massimo di € 175/mese per ogni figlio minorenne a carico. Per i figli a carico di età tra i 18 e i 21 anni, gli importi variano da un minimo di € 25/mese a un massimo di € 85/mese. Va anche detto che l’assegno unico universale sostituisce i benefici esistenti, tra cui gli assegni familiari e il premio alla nascita o adozione, e assorbe le detrazioni per figli a carico fino ai 21 anni.
[1] Della questione, che rappresenta una delle piú pressanti tematiche del presente e, maggiormente, del futuro non posso occuparmi qui. Rinvio, tra i tanti, a J. Kaplan; Le persone non servono. Lavoro e ricchezza nell’epoca dell’intelligenza artificiale – trad. I.V. Tomasello, Luiss University Press, Roma 2016.