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Con questo articolo inizia la collaborazione del Prof. Pietro Polieri dell’Università degli Studi di Bari con il nostro magazine. Si aggiunge un nuovo tassello al nostro grande puzzle e alla nostra idea di comunicazione.

La pandemia da Covid-19 ha pienamente mostrato come a livello globale sia possibile, praticabile e, per certi versi, anche paradossalmente accettata/accettabile, l’esperienza dell’implosione della dimensione del lavoro. Una serie di misure eccezionali quali chiusure, lockdown, quarantene e distanziamento sociale hanno ‘giustificato’ provvedimenti di sospensione delle attività lavorative e produttive, pubbliche e specialmente private, al solo prezzo di esigue forme di risarcimento o pseudo-sostegno ai soggetti su cui esse hanno negativamente insistito e inciso, senza che questo, soprattutto nel privato,  comportasse – in modo sostanziale e organizzato, se non in qualche sparuto caso – la reazione di quanti ne fossero stati colpiti. L’economia globale, a preponderante, si direbbe quasi esclusiva, impronta turbo-capitalistica, in pratica ha sperimentato per circa due anni un’intensificazione e un’accelerazione di strutturali processi di progressiva precarizzazione e di incipiente dis-integrazione del lavoro, e di conseguenza ha subìto uno stress pressorio grazie al quale ha potuto verificare il proprio grado di tolleranza delle trasformazioni in senso contrattivo, così da anticipare, per ragioni diverse da quelle di una sua automazione parziale o completa, lo scenario futuro di un mondo con meno lavoro o – come preconizzato da qualche studioso o analista – del tutto senza lavoro.

Ma cosa comporta la condizione per la quale, da un momento all’altro, e a causa, ieri del Coronavirus, oggi e domani della sfrenata e indiscriminata tecno-digitalizzazione della produzione e del lavoro, ovvero della cosiddetta ‘rivoluzione globotica’[1], il lavoro sia ormai bruciato per una massa di persone che prima erano occupate o per un numero estesissimo di giovani qualificati pronti ad entrare proprio in quel mondo della produzione e del lavoro? Se per la maggior parte di essi e degli osservatori questo implica innanzitutto un principio di collasso dell’economia e dell’architettura sociale per come le abbiamo conosciute sino ad ora, e secondariamente una modificazione dell’identità e della definizione stessa del lavoro tale da determinare una radicale revisione di quella tradizionale relazione di attesa ‘salariale’ che emergeva dalla messa in atto di una certa operatività feconda e proficua, per altri ‘esperti’, invece, rappresenta una novità straordinaria e un’enorme occasione non solo per ripensare le priorità cui dovrebbero orientarsi le comunità antropiche post-lavoristiche e onni-automatizzate, ma anche e soprattutto per liberare da parte di queste ultime quella creatività umana che per troppo tempo è stata soffocata e repressa da una sorta di dittatura della logica classica del lavoro.

In tale direzione, ma per vie tra loro differenti, si sono mossi pensatori impegnati e raffinati: Franco «Bifo» Berardi[2], che ha dedicato gran parte della sua attività teoretica a dimostrare la necessità e l’urgenza di muovere una guerra razionale e appassionata nei confronti della schiavitù del lavoro salariato, parte integrante di un più complesso e articolato meccanismo liberal-capitalistico di sfruttamento e di potere, al fine di raggiungere quell’autonomia ed emancipazione dall’inibitore artificiale per eccellenza della felicità, che oltre alla forza materiale dell’uomo consente al capitale la sussunzione anche dell’‘anima’, nei suoi aspetti cognitivi, linguistici ed affettivi; Robert Kurz[3], autore di una riflessione organica e puntuale sull’opportunità di un contrasto consapevole del pensiero progressista-riformista, di stampo socialdemocratico-liberale, che, depotenziando se non abbattendo la forza del pensiero critico, immagina la possibilità non tanto di un giudizio essenzialmente negativo sul lavoro, quanto di una sua ri-valutazione nel senso di una più equa redistribuzione sua e delle ricchezze da esso ricavabili; Ermanno Bencivenga[4], che ha concepito il lavoro, nell’ambito di un consesso umano centrato sulla prestazionalità, come un dispositivo di destrutturazione individuale e sociale, in relazione sia a chi si sta forgiando per accedervi, il più delle volte inutilmente a causa dell’incapacità di assorbimento del mercato delle competenze pur richieste; sia a chi, esodato dalla propria azienda, esperisce un profondo senso di inservibilità nonostante la sua ancora evidente e persistente efficienza; sia a chi, pur avendo un lavoro, viene costretto a compromessi ignominiosi e turpi per conservarlo; sia, ancora, a chi, non essendo mai stato occupato, ha trascorso una vita intera a concepirsi come privo di qualsiasi dignità umana. Dunque una linea di pensiero animatamente e radicalmente critica nei confronti del lavoro in misura paritetica alla delegittimazione del capitalismo, di cui viene ritenuto manifestazione centrale e organica, e in stretta associazione a tutte le espressioni ‘tecnologico-informatiche’ di quest’ultimo, testimonianza di una pervasività capillare della tentacolarità della post-moderna economia di mercato. In virtù di tutto ciò, il lavoro per questi intellettuali è ciò di cui è obbligatorio liberarsi, per dare sfogo e attua(bi)lità a tutte le alternative pratico-esecutive ed esistenziali, che, secondo loro, dovrebbero considerarsi disancorate rispetto a qualsiasi forma utilitaristica di corresponsione e retribuzione, e semmai collocate in un’inedita struttura semiotico-sociale imperniata sull’oblazione, la cura, il dis-interesse, la pura creatività, la de-finalizzazione e la de-efficientizzazione.

Se queste proposte, oltre a convergere sull’ineluttabilità della dismissione, teorica e materiale, del lavoro, concordano anche sull’elisione critica delle architetture digito-tecnologiche che lo sostengono e attualmente lo incarnano, altre, che pur condividono la linea per così dire ‘eliminazionistica’ della produzione organizzata e salariata, sono al contrario propense a raggiungere tale obiettivo mantenendo in essere tutto l’impianto ‘automato-logico’ partorito e perfezionato dal capitalismo, curvandolo strumentalmente sulla via ‘onni-tecno-centrica’ dell’affrancamento e della redenzione dell’uomo dalla fatica, dalla subordinazione e dall’umiliazione cui il lavoro lo costringe. Quindi la prospettiva di un mondo completamente senza lavoro dovrebbe essere possibile solo attraverso una generale, sistematica e ramificata automazione, in tal modo permettendo all’uomo di ‘assistere’ ‘spettatorialmente’ a una nuova modalità di costruzione dell’attività lavorativa, che farebbe per l’appunto a meno di lui e si organizzerebbe a prescindere da un suo ordinario intervento, lasciando, così, che egli si dedichi a ben più significative e gratificanti occupazioni de-salarizzate, de-profittizzate, o meglio, ricondotte a una dimensione più antropica in quanto sciolte da finalità meramente efficientistico-produttivistiche. È il caso, questo, di due intellettuali, Alex Williams e Nick Srnicek, inizialmente noti al pubblico per il loro Manifesto accelerazionista[5], in cui abbozzano un quadro di ripresa della sinistra mondiale partendo dall’idea di una rivalutazione del concetto euristico, esplorativo e sperimentativo dell’‘accelerazione’, da contrapporre antiteticamente a quello di ‘velocità’, accumulativa e distruttiva, del capitale. In pratica essi propongono la messa a frutto ‘collettiva’ dei vantaggi prodotti dalla tecnologia, volendone dischiudere tutte le potenzialità ‘sociali’ piuttosto che vederne costantemente replicate le virtualità ‘individualistico-elitarie’, al fine, così, di permettere al lavoro e a tutte le forze produttive di sprigionare la loro propria energia ‘latente’, con il risultato di sollecitare, mettere alla prova e indurre all’emersione un ‘corpo tecnosociale moderno’, di cui non è ancora immaginabile la realtà e la dirompenza. La posizione di tali accelerazionisti si perfeziona in una postura anti-tecno-utopistica, nella misura, cioè, in cui il cambio di passo in avanti dello sviluppo tecnologico non viene concepito di per se stesso come strumento di superamento ‘automatico’ dei conflitti, bensì come un mezzo che, associato alla necessaria azione politica, conduca all’affrontamento e alla risoluzione pragmatica delle medesime frizioni. Per questo l’investimento più opportuno sarebbe da realizzare proprio sulle piattaforme digito-informatiche e tecnologiche disposte dal capitalismo, sede ormai ‘naturale’ di concretazione della neo-rivoluzione sociale che colpisce primariamente la dimensione del lavoro. L’idea malsana, dunque, di voler abbattere il capitalismo distruggendo le sue infrastrutture tecnologiche risalirebbe, quindi, per gli accelerazionisti, a un’inveterata e stantìa concezione proto-sinistroide, di per se stessa incapace di rispondere debitamente e conformemente alle nuove sfide poste dalla condizione post-moderna. Il complesso di tali ragionamenti viene poi ribadito e radicalizzato in un’opera successiva dei due intellettuali accelerazionisti, il cui titolo e sottotitolo non lasciano dubbi su quali siano per loro – e per una sinistra emancipata e iper-tecnologista – gli obiettivi da perseguire in maniera pervicace nella contemporaneità: Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro[6], progetto in cui, a fronte della dis-abilitazione del lavoro ottenuta attraverso una ‘sana’ onni-robotizzazione della produzione, diventano fondamentali – così come recitano gli slogan presenti sulla copertina del testo – le pretese relative a una piena automazione, a un reddito universale e al futuro, che vengono inquadrate in una piano strategico integrato di costruzione di un nuovo immaginario socialista e di riconquista della modernità. A fronte di cotanta prospettività socio-tecno-creativa, annunciante una fase di mutamento radicale fondato sulla liberazione della potenza della tecnologia capitalistica in funzione post-capitalistica, rimane però da chiedersi come sia possibile che, almeno in Italia, l’ultima fatica editoriale di Srnicek e Williams, di cui si è appena tratteggiato sinteticamente il senso, sia diventata troppo presto irreperibile. Esaurimento delle scorte per richiesta eccedente o incapacità delle teorie in esso esposte di attecchire in un panorama intellettuale e sociale ancora legato alla presenza materiale e necessaria del lavoro e, per di più, non del tutto aperto all’ipotesi della proficuità automatica della sostituzione, nel lavoro, dell’uomo con la macchina? Sta di fatti che l’editoria nostrana – e quindi il mondo socio-scientifico che è alle sue spalle –  non nasconde certo di stare spingendo notevolmente sul pedale dell’acceleratore delle idee di ‘luogotenenza macchinica’, ovvero di stare impegnandosi nella diffusione continua di testi grazie ai quali lentamente ma insistentemente si prospetti l’utilità per l’uomo del presente e del futuro di una salubre ‘disoccupazione tecnologica’, che, esito ‘naturale’ del processo di totale automazione del lavoro, proietti l’uomo medesimo a rinvigorire la sua stessa umanità a prescindere e al di là di qualsiasi impegno occupazionale salariato, che, al contrario, ne avrebbe da sempre inibito l’emergenza e lo sviluppo.

Prodotto esemplare di tale linea interpretativa ‘post-umanista’ in campo lavorativo sono il pensiero e l’opera di Daniel Susskind[7], Fellow in Economics presso l’Università di Oxford e Visiting Professor al King’s College di Londra, per il quale la pandemia non si sarebbe comportata altro che da acceleratore di ormai avviati processi di tecno-sostituzione dell’uomo nel campo della produzione e del lavoro in generale, mostrando che la possibilità di perdere la propria occupazione da un giorno all’altro debba essere percepita non come una condizione eccezionale, ma come una situazione ordinaria in virtù del progresso tecnologico che investe la realtà sociale nella sua totalità, di cui il lavoro è parziale quanto sostanziale espressione. Per Susskind, in altre parole, non si tratterà più, per l’appunto, per gli individui di ‘perdere il lavoro’ quale occorrenza occasionale in un mondo incardinato nel lavoro (ancora) umano, ma di esperire con mite rassegnazione l’inesistenza piana e consueta di lavoro per tutti gli uomini in ragione della sua completa automazione, condizione, questa, della cui inesorabilità lo studioso invita la collettività antropica a prendere coscienza e nei confronti di cui sprona a sagomare una corretta e morigerata postura ideologica e comportamentale.

E se quanto appena esposto presagisce un futuro impressionante e agghiacciante, per certi versi ‘già troppo presente’, le istruzioni fornite da Susskind per affrontarlo sono ancora più raccapriccianti. Innanzitutto egli propone di fronteggiare i problemi di disuguaglianza sociale – che inevitabilmente saranno generati dall’instaurazione di una cultura e di una pratica di quella che si potrebbe, in questa sede,definire una ‘totautomazione’ – grazie ad un rinnovato e più robusto ruolo dello Stato, da preferire nella configurazione, diretta e aggressiva, di un Big State, in grado di tassare il capitale insieme al grande business, redistribuire il reddito dopo aver raccolto le entrate indispensabili, e in tal maniera accompagnare la direzione di movimento di una società e di un mondo senza lavoro, intervenendo oculatamente sui processi di ripartizione del benessere prodotto dalle nuove tecnologie nella piena consapevolezza della flessione, fino a spezzarsi, del mercato del lavoro per come oggi lo conosciamo.

In questo quadro si colloca, poi, l’idea di attribuire da parte dello Stato ai cittadini non-occupati, sempre all’interno di un prossimo futuro mondo con meno lavoro/senza lavoro, un reddito di base non nella forma universale, cioè privo di qualsiasi operatività in cambio della sua erogazione, ma nella tipologia ‘condizionata’, legata, in pratica, a una qualche modalità di contributo non economico che consenta alle diverse società di mantenere attivo il suo proprio equilibrio interno scandito dal principio della solidarietà collettiva e dell’uguaglianza. Per questo potrebbe essere, per esempio, supponibile che a chi non possa eventualmente contribuire lavorativamente ed economicamente al bene della società in cui vive sia richiesto in cambio di svolgere lavori intellettuali, culturali, assistenziali e istruttivo-formativi, che non comportino corresponsione alcuna, ma che si configurino essi stessi come forma di contra(c)-cambio rispetto al reddito di base conferito statualmente (e condizionatamente).

Ma ciò che fa veramente rabbrividire è un’altra funzione che si vuole assegnare al Big State ipotizzato – a questo punto sempre più Hard State –, ovvero la creazione di senso a fronte di una percezione diffusa, che sicuramente si dovesse manifestare da parte dei non-occupati o non-più-occupati o neo-dis-occupati, di disorientamento e di perdita di significato e di direzione di e in una realtà ormai sganciata dalle finalità produttive e impegnative fornite dal lavoro, a fronte, in definitiva, dell’enorme voragine nichilistica che la scomparsa del lavoro per forza di cose causerebbe. Insomma si dovrebbe cominciare a pensare a un Ministero del Significato e a dei ministri, sottosegretari e funzionari della Motivazione Generale, che elargirebbero creativamente significati e motivazioni ‘di Stato’, confezionati/normati, istituzionali, centrali, burocratici, così da irreggimentare i loro destinatari e beneficiari. Invero un Totalitarismo tecno-digitale statuale del Bene Collettivo quale prezzo da pagare per l’espulsione del lavoro dalla vita sociale a seguito della sua completa automazione/cibernetizzazione.

Ma si è veramente sicuri di essere disposti ad accettare una tale radicale trasformazione del senso del lavoro e dei valori propri di una società centrata specificamente sulla nodalità significale/significativa del lavoro? A ben guardare sembrerebbe sinceramente di no. E la risposta viene proprio da Simone Cerlini[8], esperto in politiche attive del lavoro e della formazione, oltre che Capo Divisione Lavoro di Afol Metropolitana di Milano, il quale sostiene che la proposta di una liberazione dal lavoro, per qualsiasi ragione – si potrebbe specificare anticapitalistica/antimercantilistica o accelerazionistica o filo-iper-tecnologicistica –, pensata e praticata al fine di dischiudere tempo alla purezza e all’innocenza dell’improduttività o alla fecondità di un ozio creativo, in fondo tratteggia la posizione di ‘benestanti intellettuali’, che evidentemente, ormai slegati dalla realtà economica effettuale e collocati in una dimensione narcisistica di auto-referenzialità, si permettono il lusso di uno sfregiante snobismo nei confronti di una classe emergente – contro la loro, che sarebbe in declino –, costituita da ‘(neo-)servi’, intenzionati a non perdere, insieme al lavoro, non solo la dignità personale, legata alla retribuzione economica connessa ad esso, ma soprattutto la possibilità dell’esperienza di valori e di relazioni plurali implicati nella prassi lavorativa, che permette a ciascuno di loro di contribuire vantaggiosamente allo sviluppo e all’elevazione della società di cui sono attori impegnati e fertili.

Pensare, dunque, secondo la critica anti-capitalistica o sulla base di progetti accelerazionisti o sulla scorta di direttrici neo-tecno-economicistiche trans-lavoristiche, che del lavoro si possa e si debba fare a meno per consegnarsi, mani e piedi, all’anarchia più caotica o, in alternativa, all’ultimo oltre-futurismo tecnologico disponibile o, ancora, allo ‘statalismo del senso’ erogato assieme ad una sorta di reddito di base condizionato all’interno di una società dell’onni-automazione e dell’omologazione – in cui semmai i beneficiari di tale versamento centralizzato debbano essere costantemente sorvegliati e controllati nelle loro azioni socialmente ma non economicamente produttive affinché risultino sempre conformi ai requisiti richiesti per il loro ‘basilare finanziamento statale’ –, è per lo meno degno di un onesto atteggiamento scettico oltre che di una profonda ulteriore disamina critica.

 

[1] Cfr. Richard Baldwin, La rivoluzione globotica. Globalizzazione, robotica e futuro del lavoro, il Mulino, Bologna 2020.

[2] Cfr. Franco «Bifo» Berardi, Ultimi bagliori del Moderno. Lavoro, tecnica e movimento nel laboratorio di Potere operaio, Ombre Corte, Verona 2023; Id., Vive la Commune! Rifiuto del lavoro e diritto all’ozio, DeriveApprodi, Bologna 2022; Id., Quarant’anni contro il lavoro, DeriveApprodi, Bologna 2017; Id., L’anima al lavoro. Alienazione, estraneità, autonomia, DeriveApprodi, Bologna 2016; cfr. anche Id., La fabbrica dell’infelicità. New economy e movimento del cognitariato, DeriveApprodi, Bologna 2001.

[3] Cfr. Gruppo Krisis (Robert Kurz – Norbert Trenkle – Ernst Lohoff), Manifesto contro il lavoro, DeriveApprodi, Bologna 2003.

[4] Cfr. Ermanno Bencivenga, Manifesto per un mondo senza lavoro, Editori Riuniti, Roma 2012.

[5] Cfr. Alex Williams – Nick Srnicek, Manifesto accelerazionista, Laterza, Roma-Bari 2018.

[6] Cfr. Nick Srnicek – Alex Williams, Inventare il futuro. Per un mondo senza lavoro, Nero, Roma 2018.

[7] Cfr. Daniel Susskind, Un mondo senza lavoro. Come rispondere alla disoccupazione tecnologica, Bompiani, Milano 2022.

[8] Cfr. Simone Cerlini, Manifesto della classe dei servi. Contro la fine del lavoro, il Margine, Trento 2023.

Pietro Polieri

Pietro Polieri (1974), laureato in Filosofia presso l’Università degli Studi di Bari ‘Aldo Moro’ e dottore di ricerca in ‘Logos e Rappresentazione. Studi interdisciplinari di Letteratura, Estetica, Arti e Spettacolo’ presso l’Università degli Studi di Siena sotto la guida del Prof. Gioachino Chiarini, è assegnista di ricerca in Filosofia del diritto presso il Dipartimento di Giurisprudenza e quello di Fisica dell’Università degli Studi di Bari ‘Aldo Moro’ con un programma dal titolo ‘Intelligenza Artificiale, ragionamento giuridico e giustizia predittiva. Una prospettiva filosofica’. Inoltre è professore a contratto di Bioetica e filosofia morale presso la Scuola di Medicina dell’Ateneo barese e di Antropologia filosofica presso il Dipartimento di Studi Umanistici dell’Università del Salento. È anche professore incaricato di Estetica e di Antropologia dell’Arte presso l’Istituto Pantheon-Design & Technology di Roma, oltre che docente di ruolo di Filosofia e Storia nei Licei. Ha all’attivo alcune monografie: I suoni della Torah. L'ebraismo «letto» attraverso la musica; Il manifesto della donna «riformata». Una lettura del Cantico dei Cantici; La voce dell’Inizio. Alla sorgente della musica ebraica; La colpa dell’essere. La violazione originaria tra riscostruzione storico-teologica e analisi filosofica; Dio è tollerante? Il cristianesimo di fronte alla pluralità delle religioni e alla sfida etica globale. È inoltre autore di saggi sulla globalizzazione/glocalizzazione, sulla de-territorializzazione, sul libero arbitrio in relazione alla meccanica quantistica, sull’antropologia politica del potere in Michel Foucault. Diplomato in Flauto traverso presso il Conservatorio ‘L. Refice’ di Frosinone e attivo come direttore di coro e di orchestra, è compositore di musica sacra e liturgica ed esecutore in numerose incisioni discografiche.