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C’è un mosaico di volti, storie, lacrime e sofferenza che riemerge dalle gigantesche depressioni carsiche di cui è ricca l’Italia settentrionale e quella che un tempo fu parte dell’Italia, orgoglio della nazione nei territori irredenti, a lungo contesi e presto occupati prima di essere animati da brutale violenza e devastazione. Una violenza cominciata nel 1943 e che vede i suoi picchi più drammatici proprio una volta terminato il conflitto mondiale. Una realtà paradossale e a tratti ossimorica, in quelli che sarebbero dovuti essere i nuovi tempi di pace.
Roberto Menia, nel suo libro 10 febbraio. Dalle foibe all’esodo,restituisce alla storia una lucida analisi e l’insieme di ricordi e passioni che hanno animato i discendenti e le, spesso brevi, vite di decine di migliaia di italiani catturati, massacrati, seviziati ed infoibati, come la relativa memoria storica, dalle milizie Titine, in quelli che sarebbero divenuti territori della nascente Jugoslavia comunista.
Quello che oggi conserva una prestigiosa onorificenza di Cavaliere di gran croce decorato di gran cordone è stato uno dei grandi boia degli italiani nei territori di Istria e Dalmazia. Il saggio, che ricompone lucidamente e con grande partecipazione emotiva il dramma delle foibe, è una testimonianza storica viscerale, impetuosa. Quella di Menia è una lettura necessaria per non lasciarsi obnubilare da un revisionismo storico tangibile e spesso deplorevole, con una narrazione storica ed obiettiva che spesso continua ad essere sepolta dal fanatismo ideologico.
Suddividendo la narrazione in capitoli indipendenti l’uno dall’altro ma uniti dal dramma comune, Menia racconta la quotidianità di un popolo scosso dalla guerra, abbandonato dal resto della Penisola dilaniata dalla guerra civile e costretto a subire il giogo degli invasori, spesso accolti come baluardi di virtù e libertà, e che presto non avrebbero risparmiato neanche coloro che credevano nella stessa ideologia comunista. (Tito si distaccherà presto da Stalin, riscoprendo negli antichi alleati, ennesimi nemici da epurare).
Quella stessa libertà di cui invece furono violentemente privati i protagonisti delle vicende, rimasti a lungo sepolti fra le pieghe del tempo e di una storia spesso selettiva ed approssimativa.
La narrazione abbraccia tanti protagonisti: dal celebre sorriso di Norma Cossetto, simbolo del dramma delle foibe e la sua riscoperta cadavere “sembrando che dormisse”, ai “nuovi” fantasmi di Pisino, terra di racconti spettrali e antichi che avrebbero ben presto lasciato il posto ai dolorosi ricordi delle mattanze di Ivan Motika, luogotenente di Tito e le nefaste corriere della morte che lasciavano il centro cittadino tra pianti e lamenti e vi facevano ritorno in un surreale e tombale silenzio.
Da Vines a Cherso, passando per la “tonnara” di Arsia ed i suoi squali richiamati a riva dai cadaveri, fino all’instancabile ed eroica attività di Arnaldo Harzarich che rischiando la vita recuperò oltre 200 corpi nelle foibe e circa 50 nelle cave di bauxite tra il ‘43 ed il ‘45, dando la possibilità a numerose famiglie distrutte dal dolore di piangere ciò che restava dei propri affetti.
È raggelante solo pensare che i numeri legati agli infoibati della “prima ondata” di Tito, superassero le 1000 unità.
Ogni racconto che arricchisce questo libro è una componente di inestimabile valore della nostra tradizione culturale. Non è un caso che l’autore abbia cominciato la sua disamina citando Dante, l’esule in patria per eccellenza, che citò Pola nel suo capolavoro de L’Inferno e le lingue degli italiani di Istria e Dalmazia nel De Vulgari Eloquentia.
È inspiegabile come certe pagine della storia siano rimaste sepolte per decenni e riemergendo siano state oggetto di dispute cosi accese da sfociare nel revisionismo.
Nel 1946 alla prima plenaria della Costituente, Alcide De Gasperi parlò per primo del dramma degli italiani esuli e massacrati al confine.
Una condanna troppo timida e che rimase in secondo piano rispetto ad una pacata diplomazia con Palmiro Togliatti, nell’ambito di un’Italia che stava cambiando e che voleva solo dimenticare.
Nel 2004, l’autore di questo capolavoro dirompente e drammatico, l’Onorevole Roberto Menia è divenuto il padre della legge che istituisce il 10 febbraio “La giornata del ricordo”. Definita dallo stesso Menia una importante eredità storica e valoriale, sta alle nuove generazioni continuare a coltivare il seme della conoscenza e del ricordo stesso, affinché quelle pagine, dolorose quanto cruente, non vivano più nell’oscurantismo ma possano sublimare la consapevolezza.
Alarico Lazzaro