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Nel dibattito sulla promozione della formazione terziaria si inseriscono Massimo Armenise* e Federico Benassi* che mostrano i gravi rischi che correrà nei prossimi anni il sistema universitario italiano a causa delle dinamiche demografiche in atto sottolineando che le disparità territoriali potrebbero minare la sussistenza stessa di molte università, tutte del Mezzogiorno.
I bambini di oggi, i pochi universitari di domani
Le attuali tendenze demografiche sono in grado di delineare il possibile futuro dell’istruzione terziaria in Italia. Le previsioni Istat per il periodo 2018-2066 per regione ed età, mostrano come il numero di giovani di 19-25 anni, fascia di età in cui ci si iscrive solitamente all’università, sarà stabile (o lievemente in crescita) fino al 2031 per poi decrescere sensibilmente fino al 2041, quando gli attuali bambini di 0-5 anni avranno raggiunto l’età per essere iscritti. Tale andamento non sarà ovunque uguale: crescerà la popolazione giovanile nel Nord Italia (presumibilmente a causa del saldo migratorio netto interno e internazionale positivo) e decrescerà quella del Mezzogiorno (verosimilmente per la ragione opposta). Tale scenario previsivo avrà un impatto, ceteris paribus, determinante su molte università italiane, data la loro scarsa capacità di attrarre stranieri, e considerato che la gran parte degli studenti iscritti risulta essere non solo italiana ma anche per lo più proveniente dalla provincia in cui l’università ha sede (legale). Si è quindi provato a quantificare i futuri iscritti per ciascuna delle attuali università italiane1, così da delineare lo scenario prossimo che le attende e individuare quelle a maggior rischio di “estinzione”.
Vocazione locale, auto-contenimento e specializzazione
Gli open data2 sul numero di iscritti per provincia di residenza, mostrano come siano molte le università italiane che si reggono in maniera preponderante su un blocco di studenti che risiedono nella stessa provincia in cui ha sede legale l’università. Queste università potrebbero essere definite come a “vocazione locale”. In realtà, però, la composizione geografica degli studenti iscritti in ciascuna università può essere anche il risultato di una scarsa mobilità degli stessi residenti, derivante dal fatto di avere nella stessa provincia di residenza un’ottima università a cui iscriversi o un completo set di offerta didattica terziaria fra cui scegliere. Definiamo questi territori come “ad alto grado di auto-contenimento”, qualora la maggioranza dei residenti decidesse di iscriversi nelle università locali. Tale grado di auto-contenimento indica una spiccata capacità del territorio di soddisfare la domanda di istruzione universitaria che si genera all’interno dei propri confini mediante un’offerta anch’essa localizzata all’interno degli stessi confini.
Mettendo insieme queste due informazioni (percentuale di iscritti dell’università proveniente dalla stessa provincia in cui ha sede l’università e percentuale di studenti che si iscrivono nella università della provincia) è possibile avere un quadro di quali siano le università a vocazione locale, e non, presenti in territori ad elevato grado di auto-contenimento, o meno. Nella figura 1 gli assi (posizionati sul valore del 50%) suddividono i quattro quadranti nel seguente modo: nel I° vi sono le università con elevata vocazione locale e presenti in territori ad elevato grado di auto-contenimento; nel II° vi sono le università con scarsa vocazione locale e presenti in territori ad elevato grado di auto-contenimento; nel III° vi sono le università con scarsa vocazione locale e presenti in territori a basso grado di auto-contenimento; ed infine nel IV° vi sono le università con elevata vocazione locale ma presenti in territori a basso grado di auto-contenimento.
La “vocazione locale” di una università potrebbe però essere parzialmente calmierata dalla presenza di sedi didattiche territoriali extra provinciali, capaci di attrarre studenti provenienti da altri territori. Per monitorare tale eventualità, si è proceduto a quantificare le province da cui una data università “attrae” iscritti in numero relativamente superiore al dato nazionale. In pratica, si è effettuato un confronto fra quote, calcolando una sorta di quoziente di localizzazione capace di rilevare se esiste una specializzazione di una data università in un determinato territorio3.
Il numero di province in cui una università presenta una “specializzazione” è stato inserito nel grafico 1 come dimensione delle bolle, per cui, le bolle più grandi ne segnalano un numero maggiore4. È facile notare come il numero di province in cui l’università ha una maggiore “specializzazione” e dunque attrazione cresce nel II° quadrante, quello in cui vi sono università non con “vocazione locale” e in territori ad elevato livello di “auto-contenimento”.
Capacità di attrazione e scenari (non rosei) futuri
La capacità di attrarre studenti da altre province, rende necessario porsi il quesito su che tipologia di iscritti si vada ad incrociare. Sono gli studenti più facoltosi a spostarsi, o sono quelli meno facoltosi a ricercare le università con, ad esempio, tasse di iscrizioni più basse (o comunque che comportano costi inferiori)?
La figura 2 non lascia dubbi al riguardo. Le università con vocazione locale e presenti in territori meno “auto-contenuti” sono quelle con una percentuale di iscritti che pagano tasse “elevate” (oltre 2.000 euro) praticamente irrisoria. Chi rimane a studiare lì, è quindi chi può contribuire con poco.
Ma, dato quanto visto sinora, sono sostenibili le università “a vocazione locale” anche e soprattutto alla luce del trend demografico che ci attende?
Come detto, l’Istat prevede che la popolazione di età 19-25 anni si ridurrà probabilmente del 16% fra 20 anni. Se su tali previsioni regionali si applicano gli attuali tassi di iscrizione5 regionale (ultimo dato disponibile 2017), si ottiene il numero di iscritti residenti in ciascuna regione nel 2041. Distribuendo questa popolazione per ciascuna provincia, in base al relativo peso regionale, è possibile ottenere una stima del numero degli iscritti all’università che ci sarà in ciascuna provincia. Se, infine, su tale vettore si applica l’attuale distribuzione dei residenti in ciascuna provincia iscritti per ciascun ateneo di destinazione, si perviene ad una stima del numero di iscritti che ciascuna università avrà nel 2041, ceteris paribus.
L’esercizio simulativo effettuato evidenzia come, il trend negativo, avviato oramai da tempo6, proseguirà nel 2041. Ma, la significativa novità, che emerge da queste simulazioni, è che tale contrazione oltre a subire una brusca accelerazione, coinvolgerà stavolta tutte le università. Particolarmente colpite, risulteranno essere quelle a maggior “vocazione locale” e soprattutto quelle del Mezzogiorno che vedranno drasticamente ridurre il numero di iscritti, di oltre un terzo rispetto al numero attuale di studenti, mettendo a serio rischio la stessa sussistenza di qualcuna (figura 3).
Fra 20 anni, il numero dei mega Atenei (quelli definiti dal Censis con oltre 40mila iscritti) passeranno da 12 a 7, i grandi atenei (da 40mila a 20mila iscritti) da 20 passeranno a 14, e conseguentemente aumenterà il numero di medi (da 20 a 10mila iscritti) e piccoli atenei (meno di 10 mila) rispettivamente da 17 a 24, e da 29 a 33.
Una delle possibili soluzioni per non arrendersi a questa idea di università senza studenti, oltre a quella di incrementare notevolmente la quota di studenti stranieri, potrebbe essere quella di spingere per un progressivo aumento del tasso di iscrizione. Da anni si parla di attuare politiche capaci di innalzare la percentuale di popolazione italiana con un livello di istruzione terziaria portandola su livelli europei (Viesti 2021), ma, anche tali policy, sembrerebbero non essere completamente sufficienti a bloccare l’emorragia di iscritti delle università del Sud Italia.
Infatti, anche se si arrivasse ad applicare un tasso di iscrizione pari a quello medio dell’Ue27 (45%, rispetto al 38% italiano), il numero di iscritti complessivo si ridurrebbe ugualmente seppur “solo” del 10% rispetto al 20%7. Ma ancora più stridenti apparirebbero le differenze territoriali con le università del Nord che sostanzialmente riuscirebbero a bloccare l’emorragia di studenti, mentre quelle del Sud sarebbero comunque condannate ad un drastico ridimensionamento (figura 3).
* Istituto Nazionale di Statistica (ISTAT), Roma. Le opinioni espresse nell’articolo sono rese a titolo personale e non rappresentano l’Ente di appartenenza.
Bibliografia
Istat (2016). Studenti e bacini universitari. Roberta Vivio (A cura di). Istituto Nazionale di Statistica, Roma. Viesti, G. (2021). Centri e periferie. Europa, Italia, Mezzogiorno dal XX al XXI secolo. Laterza, Bari
1 Nell’analisi effettuata non sono state prese in considerazione le università telematiche. Per una analisi più dettagliata sulle università si veda “Studenti e bacini Universitari” (2016), a cura di Roberta Vivio, E-book Istat.
2 L’analisi quantitativa utilizza i dati sulle iscrizioni dell’anno accademico 2019-2020 di fonte Anagrafe Nazionale degli Studenti – MIUR USTAT – Open data (miur.it).
3 Si è infatti effettuato per ciascuna provincia il rapporto fra la quota di iscritti, ad esempio della università La Sapienza, provenienti dalla provincia ad esempio di Latina, con la quota di iscritti che La Sapienza ha in Italia; qualora tale rapporto fosse superiore ad 1, potremo dire che vi è una specializzazione di quell’università in quella determinata provincia in termini di iscritti.
4 Il numero di province in cui una università risulta avere una specializzazione varia dalle 4 dell’università del Salento o di Napoli Parthenope, alle 30 dell’università di Milano San Raffaele o del Politecnico di Torino.
5 II tasso di iscrizione è definito come iscritti all’università – in qualunque sede – residenti in una regione, per 100 giovani di 19-25 anni residenti nella stessa regione. In questa simulazione non si è tenuto conto dell’auspicio che in futuro il tasso di iscrizione all’università possa aumentare così come richiesto anche dal processo di Bologna. A supporto della bontà dell’esercizio svolto, sovviene la stabilità del dato sul tasso di iscrizione a livello nazionale negli ultimi 10 anni: nel 2008 era pari al 40% rispetto al 38,5% del 2017.
6 La percentuale di iscritti all’università in Italia nell’anno accademico 2019-2020 si è ridotta di oltre tre punti percentuali rispetto al 2010-2011 (percentuale che sarebbe stata ancora più negativa senza il parziale recupero degli ultimissimi anni).
7 Il tasso di partecipazione all’istruzione terziaria dell’UE27 è di fonte Eurostat. Nella simulazione, tale dato è stato applicato all’Italia, così da ottenere il numero di studenti “iscrivibili” nel 2041, la differenza fra questo valore e quello che si avrebbe applicando il tasso di iscrizione italiano è stato poi distribuito prima regionalmente e poi a livello provinciale, così da conservare la struttura previsiva sulla popolazione.