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“Con il voto non cambierà niente in questo Paese. Purtroppo le cose cambieranno solo quando un giorno partiremo per una guerra civile qui dentro e faremo il lavoro che il regime militare non ha fatto, cioè uccidendo 30 mila persone, cominciando da Fernando Henrique Cardoso. Se morirà qualche innocente non fa niente, in ogni guerra muoiono innocenti.»
Con queste affermazioni aberranti, il “capitão” Jair Bolsonaro commentava nel lontano 1999 le prospettive di una nuova possibile dittatura militare in Sudamerica dopo quella che aveva tenuto sotto il violento giogo dei militari la popolazione brasiliana per oltre 20 anni (dal 1964 al 1985). Delle frasi lapidarie, che sconvolsero i colleghi anche durante il mandato da Deputato federale, in cui si distinse per violenza verbale, ed estreme simpatie politiche per un passato che il Brasile, in un lento ma concreto processo di democratizzazione, avrebbe voluto seppellire definitivamente.
Il Brasile, oggi, soffre una tra le crisi umanitarie, sociali e sanitarie più devastanti al mondo e l’acuirsi di quest’ultima si deve proprio a Jair Bolsonaro.
L’uomo che nel 2018 conquistò da indipendente la presidenza del Brasile, appoggiato dalla destra conservatrice, dagli esponenti più agiati del mondo della finanza e dello sfruttamento delle risorse naturali , superando il laburista Fernando Haddad al ballottaggio definitivo con oltre il 55% dei voti validi.
Una vittoria che sapeva di cesura storica con il recente passato (con un partito laburista che non aveva saputo risolvere i problemi del Brasile, acuendo la crisi economica con decisioni fortemente criticate, come il dispendio di risorse per l’organizzazione del disastroso mondiale 2014) ma che portava con se gli spettri di un passato ancor più nefasto.
Bolsonaro è l’uomo che ha visto imperturbabile bruciare il polmone del nostro pianeta. E man mano che l’Amazzonia veniva messa in ginocchio, flora, fauna e le storiche tribù indigene andavano incontro ad un terribile e sanguinario genocidio.
Lo stesso che sta avvenendo nelle favelas, nelle zone suburbane e meno sviluppate del Brasile, dove la pandemia miete vittime in continuazione.
E dire che molti leader che avevano definito il pericolo come passeggero, dopo aver contratto il morbo erano divenuti più docili nel peccare di Iubris riguardo la sua pericolosità, su tutti Boris Johnson, ma non Bolsonaro.
Quello che in patria viene spesso idolatrato come un “Messia” (alludendo al suo secondo nome) ha contratto il virus a Luglio, trasformandolo in uno spot ed un manifesto di invincibilità. Per Bolsonaro dopo la guarigione la vita é continuata come se non il Covid non fosse realmente mai esistito.
Tra dichiarazioni ilari (“Dopo 20 giorni al chiuso ho solo muffa nei polmoni”) e bagni di folla senza alcuna precauzione, Bolsonaro è sempre stato contrario ai lockdown generalizzati, ed all’uso stesso delle mascherine.
Un anno dopo il riscontro dei primi casi la situazione brasiliana è fuori controllo. Tra le varianti e la letalità in rialzo tra le fasce di popolazione più giovani, secondo i dati elaborati dall’osservatorio ISPI su base di OWID e PoderData il Brasile vanta il clamoroso primato sull’Europa come numero di morti per Covid per milione di abitanti: 1488 per i sudamericani contro i 1380 dell’intera UE.
I morti totali sono oltre 317mila, ed i contagi oltre 12 milioni. Cifre astronomiche che hanno spinto il Presidente a rivolgersi alle altre potenze mondiali per i vaccini.
Ad oggi, dopo due mesi dall’inizio della campagna, si procede a rilento. Solo il 5% della popolazione brasiliana ha ricevuto la sua dose ed i dati sono antitetici. San Paolo conta il numero più alto di immunizzati, ma è l’epicentro dei contagi più drammatici ed il focolaio della temibile variante che rappresenta un pericolo per il mondo intero.
Bolsonaro ha dimostrato incapacità di relazionarsi anche con i suoi stessi ministri e lunedì è stato tempo dell’ennesimo cambiamento.
A differenziarsi dai cambi di ministri relativi alla sanità, a cui il Presidente aveva abituato tutto il mondo, il terremoto che scuote le fondamenta del governo Bolsonaro ha dell’incredibile.
Si sono dimessi il ministro degli Esteri Araujo, quello della difesa Azevedo da sempre braccio destro (seppur moderato) del Presidente ed infine cambio anche in seno alla Giustizia, Casa Civile, Segreteria di Governo ed Avvocatura Generale.
In un clima da colpo di stato, Bolsonaro viene abbandonato dai suoi generali. Coloro che lo avevano appoggiato, sostenuto, e che si erano contraddistinti per una fedeltà a tratti illogica ed anacronistica.
Con l’ex Presidente Lula Da Silva libero dalle accuse e dalle condanne penali passate la campagna elettorale entra nel vivo.
Se quella tra Trump e Biden aveva tenuto il mondo con il fiato sospeso per l’importanza degli USA nello scacchiere geopolitico mondiale, quella in Brasile sarà una partita a scacchi tra due avversari che si conoscono bene. Da una parte Bolsonaro, accecato dalla sua arroganza e dalle sue stesse politiche distruttive (l’unica crescita è quella relativa al PIL del 4%, ma la sensazione è che l’infuriare della pandemia renda presto vano anche questo risultato) e dall’altra Lula, la politica che i brasiliani avevano voluto seppellire nel 2018.
Chi avrà la meglio è un’incognita, ma la sensazione tangibile è che ad una richiesta di impeachment per il Presidente Bolsonaro, nessuno, compresi i suoi ormai “ex” fedelissimi, si opporrebbe.
Intanto, sullo sfondo, c’è un paese in ginocchio…
Alarico Lazzaro