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Arriva dal Giappone un importante riconoscimento per il jazz italiano: con il progetto “Islands” l’Alboran Trio si è aggiudicato il prestigioso “Golden Prize”, assegnato dai critici della rivista specializzata “Jazz Hyhyo”, per il miglior album del 2020.  La formazione composta da Paolo Paliaga (pianoforte), Dino Contenti (contrabbasso) e Ferdinando Faraò (percussioni e batteria) ha registrato “Islands” nel mese di gennaio dell’anno scorso, poco prima del lockdown, presso lo studio Artesuono di Stefano Amerio, a Cavalicco (Udine), tra i più noti a livello europeo.
Il risultato – 14 brani originali – è un disco dalla forte complicità, caratterizzato da una comunicazione e da un’interazione istantanee. Lavorando alla realizzazione dell’album, Paliaga, Contenti e Faraò si sono scambiati di continuo i ruoli, sono entrati in una dimensione di totale relazione e ascolto e hanno dato vita a una musica che si è generata nel momento stesso in cui il suono ha preso forma. Afferma Paolo Paliaga, il fondatore dell’Alboran Trio: «Abbiamo lavorato per arrivare a suonare senza giudizio, senza pregiudizio, senza idee preconcette su che cosa dovesse essere la nostra musica, senza un’idea di dove saremmo arrivati suonando. Per usare una metafora, siamo stati suono così come la pianta è se stessa e non riflette sul suo essere pianta né ha idee dei frutti che deve fare. “Islands” è un disco ipnotico, contraddistinto da una grande tensione ritmica. Le “isole” del titolo sono contenitori, accolgono suoni e immagini e ognuno ci può mettere dentro ciò che sente».
Con l’ingresso nel gruppo del batterista Ferdinando Faraò al posto di Mattia Barbieri, la poetica del trio è mutata: a differenza degli album precedenti (“Meltemi”, uscito nel 2006, e “Near Gale”, pubblicato due anni dopo, entrambi per l’etichetta tedesca ACT), una parte delle composizioni di “Islands”, tutte scritte da Paliaga, è nata da un lavoro di improvvisazione collettiva, avendo pur sempre come imprescindibile punto di riferimento la ricerca e l’esplorazione della melodia. L’album, autoprodotto, è uscito lo scorso novembre. È distribuito da IRD ed è disponibile su tutte le piattaforme digitali. Il progetto grafico è dell’artista livornese Matteo Giuntini.
Fin dagli esordi (il gruppo è nato nel 2004), l’Alboran Trio si è posto l’obiettivo di cercare un nuovo suono e un modo nuovo di far suonare la più tradizionale delle formazioni jazz e ha riscosso grande apprezzamento da parte della critica e del pubblico, anche a livello internazionale. Paliaga e soci si sono esibiti sui palcoscenici di numerose manifestazioni europee, tra cui il London Jazz Festival e il Brecon Jazz Festival in Gran Bretagna, il Festival di San Javier in Spagna, il Silda Jazz Festival in Norvegia, il Festival del Medio Oriente in Turchia, lo Skodra Jazz Festival in Albania e il Festival Jazz di Roma. Innumerevoli anche i concerti dell’Alboran Trio (il nome della formazione deriva dal mare di Alboran, situato tra le coste dell’Andalusia e il Nord Africa, il primo mare che si solca entrando nel Mediterraneo dall’Oceano Atlantico, simbolico luogo di incontro tra la tradizione musicale europea e le radici africane del ritmo) in Francia, Irlanda, Bulgaria, Austria, Svizzera  e Germania.
 
Classe ‘61, varesino, nel corso della sua carriera Paolo Paliaga ha suonato e collaborato con artisti del calibro di Gianni Basso, Ares Tavolazzi, Clark Terry, Luis Agudo ed Enrico Rava. Ha all’attivo anche un sodalizio con il pianista classico Roberto Plano. Alla professione di musicista affianca quella di docente (ha un dottorato di ricerca in Sociologia e insegna Economia politica alla Scuola Europea di Varese): «Per noi è un onore e un piacere aver ricevuto il premio per il miglior disco del 2020 dalla prestigiosa rivista nipponica “Jazz Hyhyo”. Abbiamo già diverse richieste per suonare all’estero, dalla Germania alla Gran Bretagna, dall’Irlanda alla Bulgaria. Ci auguriamo che questo riconoscimento ci offra l’opportunità di portare la nostra musica anche in Giappone, affascinante Paese che mescola tradizione e modernità senza rinunciare a una forte spiritualità».
Redazione

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