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Burning diretto da Lee-Chang dong, corre per la Corea del Sud agli Oscar 2019 per la categoria migliore film straniero.E’ un’opera di grande modernità, ma mischiata con elementi antichi, che rimandano alla cultura dei piccoli villaggi. Da uno di essi,
sono originari i due protagonisti, trapiantati nella città di Paju .
Il giovane Jong-su lavora come portiere ma è laureato in giurisprudenza e assiste nel tempo libero a dei processi, ma come semplice spettatore. Lei,Hae-mi, sua coetanea, bella ragazza, lavora a chiamata per aziende che organizzano happening di pubblicità nelle strade pubbliche.E’ curioso e sopra le righe , ma efficace, il doppiaggio della protagonista fatto da Chiara Francese.
Hae-mi deve partire per l’Africa e affida le cure del gatto all’amico ritrovato, "un gatto deve non deve allontanarsi dal suo appartamento",sostiene , etc.La personalità della protagonista è estrosa, ma sfocia troppo nell’eccentrico.Il protagonista invece è il contrario: schivo, serio e riservato.L’opera si attesta come abbastanza semplice per trama e contenuti, senza fronzoli, ma con qualche elemento poetico (non a caso Chang-dong diresse il capolavoro Poetry)
che la rende meno scontata. La scena di sesso, ancora verso l’inizio, è da manuale: mostrata senza infingimenti, è priva di morbosità, pur se originale (non a caso) anche per le acrobatiche inquadrature.Quello che non piace o può essere oggetto di critica: la descrizione minuziosa di alcune scene della quotidianità, mitigate dallo choc di vedere il giovane che si masturba osservando le foto di "lei"."Non c’è molta differenza tra lavoro e lavoro" è una frase pronunciata dalla volitiva Hae-mi, mentre Jong-su rivela una passione per William Faulkner, al quale la sua scrittura forse si ispira.Un’altra frase importante che la ragazza pronuncia, per giustificare la sua partenza, è questa:la Corea del Sud non è un paese per donne.Dopo un avvio buono il film scricchiola rivelandosi dispersivo, lungo, fluttuante nella trama .Nella sceneggiatura sono presenti delle "regole" che vengono infrante ma in un ambito ristretto, casalingo, limitato.L’amore provato è frustrato dall’educazione convenzionale di chi lo avverte, mentre dall’altra parte si registra solo indifferenza.Lei è dinamica: incontra gli amici, va in discoteca, fuma erba (marijuana) mentre lui spala letame in un’azienda agricola .Un terzo personaggio si inserisce nel discorso (fortunatamente, altrimenti si era immersi in una noia totale ) ed è Ben, un ragazzo ricco (dotato di Porsche) amico, o meglio, trombamico della protagonista. I tre caratteri sembrano vivere bene questo ménage à trois ma è solo apparenza.Una lunga sequenza commentata da buona musica jazz vede la bella Hae-mi scatenarsi con movenze scomposte, ma non è neppure sufficiente la presenza del nuovo arrivo, alias Ben (Steven Yeun) che sembra quasi un Richard Gere orientale per classe e bellezza per rivitalizzare questo polpettoneL’opera infatti nella seconda parte rivela tutta la sua rigidità, protervia culturale, la durata ingiustificata di ben 148 minuti la rende indigesta, c’è poi è un finale-porcata alla Quentin Tarantino.In pratica, un disastro totale. Il regista si è perso nei meandri dei suoi fantasmi, volendo gestire un materiale da un lato apparentemente manovrabile, ma dall’altro remando completamente alla deriva, a causa della troppa ambizione e nello stesso tempo pretesa di creare un neo-capolavoro. Si è creato invece un film pretenzioso e inutile, con qualche spunto valido, ma niente di più.