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Oggi, sabato 23 febbraio, agli spettacoli delle 15,45 e delle 16,00, il regista Nanni Moretti interverrà in sala, prima delle proiezioni, al Multicinema Galleria di Bari (Corso Italia 15, infotel: 080.521.45.63), per presentare il suo nuovo film «Santiago, Italia». Il lungometraggio, presentato in chiusura del Torino Film Festival, narra attraverso l’utilizzo anche di filmati d’archivio e interviste, i mesi successivi al colpo di Stato di Pinochet – che aveva spezzato il sogno e la vita di Salvador Allende – in Cile, nel 1973. Moretti pone l’accento sul ruolo dell’ambasciata italiana a Santiago, che diede rifugio a moltissimi oppositori del regime instauratosi, consentendo loro di trasferirsi poi nel nostro Paese.
Storie bellissime, alcune incredibili, cariche di dignità e di paradossale nostalgia, non prive di risvolti assurdi, anche quando sono storie di tortura. Le immagini d’archivio ripropongono Allende naturalmente, anche con Neruda. C’è il suo ultimo discorso prima di morire al Palacio de la Moneda. Pinochet appare invece pochi secondi in immagini televisive molto disturbate. Quasi tutto è affidato alla viva voce di testimoni, uomini e donne. Sono loro, dal proprio punto di vista unico e irripetibile, a ricostruire tutto. Il clima politico, l’assedio economico, l’ostilità dei media, il ruolo degli Usa, le responsabilità collettive e individuali.
«Un anno e mezzo fa ero a Santiago per una conferenza – ha dichiarato Nanni Moretti – e l’ambasciatore Marco Ricci mi raccontò una bella storia italiana di cui andare fieri. Durante il colpo di Stato in Cile l’ambasciatore era in Italia perché la madre stava morendo, così due diplomatici trentenni si sono trovati a gestire la situazione. Quando sono tornato in Italia la voglia di fare il film non mi è passata e allora ho cominciato le prime interviste. Volevo intervistare anche i cattivi, quindi chiedevo in continuazione di entrare nel carcere di Punta Peuco, un carcere per privilegiati e alla fine ho ottenuto il permesso. In tutto ho girato quaranta ore di interviste che poi ho ridotto a due con l’aiuto del mio montatore. Non volevo parlare degli anni Novanta e della morte di Pinochet, ma volevo che il film finisse con le persone che raccontano l’Italia degli anni Settanta. Questa è una storia italiana di cui andare fieri, è una storia di accoglienza e mi piace raccontarla oggi».