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“La mafia siamo noi ed il nostro modo sbagliato di comportarci. Prima di combattere la mafia, devi farti un auto-esame di coscienza e poi, dopo aver sconfitto la mafia dentro di te, puoi combattere la mafia che c’è nel giro dei tuoi amici.” (Rita Atria)
“La mafia è una montagna di merda.” (Peppino Impastato)
“Tu puoi scegliere. Vivere o morire. Ogni respiro è una scelta. Ogni minuto è una scelta. Essere o non essere.” (Chuck Palahniuk)
Già. Le scelte. Le nostre. Noi “siamo” le nostre scelte: è innegabile. Ognuna di esse ci condiziona e tutte insieme fanno la nostra esistenza. Tutte. Da quelle piccole che riempiono la nostra quotidianità, talmente impercettibili da sembrare, talvolta, insignificanti, fino a quelle enormi, così grandi da farci credere di poter essere appannaggio solo di grandi uomini e donne, di giganti messi lì ad accecarci perennemente con la sublime luce che scaturisce dal loro esempio. Anche i più refrattari, i più resistenti, i più ostinatamente insensibili tra noi, prima o poi devono decidere da che parte stare, operare una scelta di campo, risolversi a chiudere omertosamente un occhio, o magari entrambi, disconoscendo la realtà delle cose oppure tenerli ben aperti sul malaffare e sull’illegalità, puntando l’indice sui criminali che realizzano le peggiori nefandezze in nome dei loro interessi, anche se questa denuncia fosse resa a costo della vita.
Lea Garofalo è senza dubbio uno degli esempi più fulgidi in tal senso. La sua storia è tristemente nota: testimone di giustizia (e non “pentita di mafia”, come spesso erroneamente indicata) viene brutalmente uccisa dalla ‘ndrangheta per mano del suo stesso compagno, padre della sua unica figlia, nel novembre 2009 ed il suo corpo viene dato alle fiamme per tre giorni fino alla completa distruzione, nel tentativo di disperderne ogni traccia (anche se le indagini permetteranno di portare alla luce più di duemila frammenti ossei e finanche la sua collana). Ma il suo nome no, il nome non sono riusciti a ridurlo in cenere, e così Lea è diventata – forse suo malgrado – un’eroina dei nostri tempi, un’icona, un punto di riferimento per quanti ancora inseguono e perseguono un sublime ideale di giustizia, quel rivoluzionario percorso di crescita interiore auspicato dalle parole – che abbiamo riportato in apertura d’articolo – pronunciate da un’altra martire dei nostri giorni, Rita Atria, anch’essa testimone di giustizia, suicidatasi in un estremo atto di sconforto all’indomani dell’attentato che costò la vita al Giudice Borsellino.
Le scelte di Lea Garofalo, anche le più imperscrutabili e – per noi – incomprensibili, come quella di rinunciare al programma di protezione e tornare dal suo aguzzino, andando incontro a morte certa, sono risuonate nell’Auditorium del Liceo Scientifico Statale "G. Salvemini" di Bari grazie alla rappresentazione teatrale “Lea – Nella pelle delle donne”, ultimo capitolo della meritoria rassegna “Skenè”, che ha richiamato nell’Istituto barese per ben tre giorni le opere teatrali realizzate dagli alunni delle nostre scuole. Grazie al sempre eccelso e geniale lavoro di Anna Garofalo e Rocco Capri Chiumarulo, che hanno curato l’adattamento dei testi, le luci, gli importantissimi inserti audio e video e la regia, la vita di Lea si presentava davanti ai nostri occhi non solo come una sofferta analisi sull’impegno sociale e civile, sulla condizione di cittadini che perseguono la giustizia in un paese dimentico dei suoi stessi valori costituenti, bensì anche e soprattutto sulla violenza perpetuata sulle donne tutte, argomento di più che urgente drammaticità, ormai condannate ad una vera e propria strage, quasi fossero inermi vite che un destino crudele ha fatto incappare in una sanguinosa tonnara, come richiamato in uno dei momenti più forti dello spettacolo. Nelle sapienti mani di Anna e Rocco, i giovanissimi Andrea Caldarulo, Viviana Campanello, Federica Cappiello, Silvia Cassano, Sabrina Ciliberti, Fabiola De Tullio, Fabiana Del Carmelo, Giuseppe Dell’Erba, Andrea Donà, Mariagloria Gelao, Dario Gioia, Maria Guglielmo, Luca Lombardi, Gianluca Lopedota, Nicoletta Lorusso, Marco Maggiore, Alessia Maggiulli, Angelica Menolascina, Anita Rubino, Giorgia Sciacovelli, Paolo Tiecco, Nabila Toscano, Alberto Vox, ottimamente coadiuvati dalla Tutor, proff.ssa Monica Iusco, e sotto l’irrinunciabile egida del dirigente scolastico, prof.ssa Tina Gesmundo, non solo rendono in modo magnificamente visionario l’iperbole di Lea, ma innanzitutto ci fanno credere che un’altra via possa esserci, esista, sia possibile, che si possa ancora gettare un seme sperando che germogli e dia frutto, divenendo immediatamente i nostri personalissimi talismani di una possibile redenzione civile. Il testo, scelto accuratamente traendolo tanto da testimonianze processuali quanto da scritti di Nanni Balestrini, Eschilo splendidamente tradotto da Pier Paolo Pasolini, Peppino Impastato, Thomas Pistoia e Pierfrancesco Diliberto (il Pif televisivo qui citato con il suo “Un gelato per Saviano”), diviene un pre-testo, un prologo, un’introduzione, una sollecitazione, un segnale che gli attori in pectore (alcuni dei quali già molto convincenti) ricevono, decodificano ed amplificano, trasmettendo al pubblico emozioni difficilmente descrivibili, indimenticabili, ipnotiche, finanche asfissianti nella loro cruda bellezza, con la naturalezza che solo la giovane età permette e la compenetrazione che solo la passione può infondere, e l’aula scolastica, un tempo freddo contenitore di riluttanti allievi, diviene, a sua volta, un non-luogo in cui quelle stesse parole rimbalzano, si incontrano e si scontrano, incidendo sulla vita delle (giovani e meno giovani) vite presenti sul palco ma, anche e, forse, soprattutto, in platea (dove si sono accomodati anche i genitori del mai abbastanza compianto Stefano Fumarulo, al cui ricordo la rappresentazione era dedicata), ed in cui il pensiero prende forma, diventa denuncia e prostrazione, rabbia e sconforto, coscienza ed afflizione, speranza e disillusione. Chi si aspettava un lavoro accondiscendente, magari anche rilassante, come purtroppo siamo abituati a vedere spesso nei saggi strutturati al termine degli anni scolastici, si è ritrovato a fare i conti con concetti di disarmante attualità, con una visione politica, nel senso più alto del termine, della nostra (dis)umana società, fotografata senza usare alcun filtro, senza sotterfugi che possano indorare l’amara pillola, lasciando che il sasso lanciato tra il pubblico possa fare tutto il rumore possibile e che, da esso, si propaghi un’onda di incalcolabili dimensioni che devasti le coscienze ben oltre la durata dello spettacolo, così da non sorprenderci che la Camera dei Deputati ne abbia riconosciuto il valore, invitando l’estemporanea Compagnia ad una prossima rappresentazione nelle proprie istituzionali sale; un teatro, di cui ci siamo sempre detti incondizionati sostenitori, che raramente abbiamo ritrovato in tali contesti e, soprattutto, con cotanta forza e bellezza, che spinge anche noi a rinnovare la nostra scelta di campo, la nostra rivoluzionaria decisione di impegnarci socialmente, non importa a quale prezzo, perchè, come diceva Joan Baez, “non si può scegliere il modo di morire. E nemmeno il giorno. Si può soltanto decidere come vivere. Ora!”.