Tempo di lettura: 5 minuti
“Non nascere è per l’uomo ventura massima; e poi, venuto al giorno, colà d’onde ebbe origine, subito far ritorno. Che quando Gioventú sparve, recando le sue lievi follie, quale su noi travaglio non preme, quale mai colpo si schiva? Discordie, gelosie, risse, battaglie, stragi; e infine, retaggio ultimo esecrabile, è la vecchiaia, priva di vigore, di piacevoli conversari, d’amicizia, che in sé d’ogni tristizia ha la tristizia.”
Sono passati ben trentacinque anni dalla prima volta che il Maestro Glauco Mauri ha affrontato il dittico di Sofocle dedicato al mito di Edipo, “Edipo Re” ed “Edipo a Colono”, in una storica messa in scena che fu salutata come un vero prodigio, una assoluta pietra miliare del teatro italiano, forte della sua inflessibile intolleranza, del suo implacabile rigore, della sua spietata inclemenza nei confronti dell’uomo, ma anche del suo ruvido impatto sul pubblico; da allora molta acqua è passata sotto i ponti e, come farebbe dire Sofocle al suo Creonte, “affonda nel passato il calcolo del tempo”, ed oggi Mauri chiude il cerchio rileggendo per la terza volta, dopo la ripresa del ’95, i due capolavori del teatro greco, ma da un angolatura del tutto differente, con occhi diversi, con voce assai dissonante da quella utilizzata in precedenza, lasciando che affiori soprattutto un bisogno di pace interiore, o, meglio, di ricerca della pace, di un rifugio che possa finalmente accogliere lo stanco girovagare dell’eroe, di una riconciliazione che possa sciogliersi in un abbraccio consolatorio, di una definitiva risposta agli antichi enigmi che, infine, riveli il senso compiuto dell’umana esistenza.
Le edizioni teatrali curate da Mauri sembrano così ricongiungersi, proprio come le opere del tragediografo, universalmente considerate tra i momenti più alti del pensiero greco: se nell’“Edipo Re”, il re tebano che, dopo aver scoperto di aver inconsciamente ucciso il proprio padre, usurpandone il trono, e sposato la propria madre, giunge ad accecarsi per punire i propri misfatti, non è solo il riluttante protagonista di un dramma scenico perfetto, bensì il simbolo dell’oscura ed irrisolta vicenda dell’uomo, creatura di smisurato e nessun valore al tempo stesso, quando nell’“Edipo a Colono” la storia verrà ripresa ad anni di distanza, i passionali delitti e le sventure del re “errante” (in ogni senso) avranno trovato la risolutiva catarsi nella sofferenza determinata dalla – apparentemente infinita – pena inflittagli per crimini che – finalmente lo comprende – non ha voluto compiere, quasi fosse un inconsapevole fantoccio nelle mani di un ineluttabile fato, ed il suo definitivo approdo in Atene, tempio della civiltà, con l’unico essenziale sostegno della figlia Antigone, sarà la naturale manifestazione della sua radicale e consapevole decisione – probabilmente la prima della sua esistenza presa in totale autonomia – di lasciarsi andare alla morte, di abbracciare le tenebre perché sulla sua (dis)umana vicenda torni finalmente ad ergersi la luce.
La compagnia Mauri / Sturno, giunta al Teatro Petruzzelli per due repliche che hanno chiuso l’annuale cartellone della Stagione di prosa del Teatro Pubblico Pugliese, non è riuscita però – e ci spiace molto doverlo constatare – a rinverdire i fasti del passato, tanto di quello più remoto già ricordato quanto di quello più prossimo e recente che ci vide osannanti spettatori della splendida riscrittura e trasposizione di “Quello che prende gli schiaffi” di Leonid Nikolaevic Andreev; anche la decisione di affidare la regia della prima opera ad Andrea Baracco, mentre Mauri si confermava alla direzione della seconda, non riusciva a togliere all’intera rappresentazione quella sensazione di spettacolo vecchio, lontano, consumato, stantio finanche, peraltro appesantito sia dalle scene, molto strehleriane (come la presenza d’acqua) nella prima parte e troppo geometriche e soffocanti nella seconda, sia dai costumi, a metà tra le suggestioni dark / punk e l’universo creato da Lucas per “Star wars”, entrambi di immediato richiamo ma anche di scarsa originalità, tutti creati da Marta Crisolini Malatesta, mentre risultavano apprezzabili le musiche di Germano Mazzocchetti. In tale contesto, anche le singole prove d’attore non trovavano l’adeguato spessore, e nessuno riusciva ad andare al di là di una impostata recitazione accademica, nemmeno la tanto attesa Elena Arvigo, nient’affatto convincente tanto come Giocasta quanto come Antigone, e soprattutto Roberto Sturno, contitolare della ditta, che, nella prima opera, è stato un Edipo senza sfumature, senza momenti di sospensione, meditazione o riflessione, eccessivo, isterico ed irrequieto, in preda ad una continua rabbiosa confusione che non lasciava emergere il dramma della sua inquietudine interiore, il tumulto del suo animo, compresso ed appiattito dai suoi interminabili accessi d’ira; solo Glauco Mauri, più come protagonista di “Edipo a Colono” che in “Edipo Re” in cui si era autorelegato nel ruolo dell’indovino cieco Tiresia, riusciva a realizzare un’altra – l’ennesima – magistrale interpretazione, dominando – anche fisicamente – la scena, recitando da par suo le parole di un re, di un maestro, più semplicemente di un uomo al crepuscolo, lasciando che ce ne riappropriassimo, scrivendole col fuoco sulla nostra pelle, regalandoci momenti che – come sempre – ci catturavano oltre ogni confessabile emozione, come quando, in una sorta di fugace accenno di metateatro o di antico Teatro dell’Arte, ha atteso sul bordo del palco che la pièce fosse terminata per chiudere il sipario – da perfetto capocomico – sui suoi attori e, soprattutto, su di lui.