Tempo di lettura: 9 minuti
“L’abito dei forzati è a righe bianche e rosa. Se l’universo, di cui mi compiaccio, io per comandamento del cuore lo elessi, la facoltà ho almeno di scoprirvi gli svariati sensi che voglio: "ebbene, uno stretto rapporto esiste tra i fiori e gli ergastolani". La fragilità, la delicatezza dei primi sono della medesima natura della brutale insensibilità dei secondi. Ch’io abbia da raffigurare un forzato – o un criminale, – sempre lo coprirò di tanti e tanti fiori ch’esso, scomparendovi sotto, ne diventerà un altro gigantesco, nuovo.” (Jean Genet)
“A me non interessano quelli che si sentono prigionieri in carcere, mi preoccupano di più quelli che pensano di essere liberi fuori dal carcere.” (Armando Punzo)
“We’ve got to get in to get out.” (Peter Gabriel)
A volte uno spettacolo ci prende, ci cattura, ci ammalia ben prima che si levi il sipario. Già nei giorni precedenti la messa in scena di “Santo Genet”, il capolavoro di Armando Punzo e della sua Compagnia della Fortezza dedicato all’opera omnia del genio inarrivabile di Jean Genet, giunto al TeatroPetruzzelli di Bari nell’ambito dell’annuale cartellone del Teatro Pubblico Pugliese, la nostra attesa si era fatta spasmodica, eppure non era in alcun modo comparabile con quello che abbiamo provato quando, avvicinandoci al nostro Politeama, abbiamo scorto, all’ingresso e poi nel familiare foyer, svariati marinai, che ci riportavano subito alla memoria “Querelle de Brest”, l’ultimo film di Rainer Werner Fassbinder che, ancora oggi, si staglia come una delle migliori, se non la migliore, trasposizione cinematografica di un testo di Genet, i quali, posizionati su piccoli piedistalli ed intenti a riprodurre in eterno misurati gesti che ci indicavano il cammino, erano suddivisi su due file in modo da non permetterci di accedere in sala se non passando sotto le loro simboliche forche caudine, quasi fossimo dei novelli ed imberbi Ulisse. Ad attenderci tra le poltrone della platea c’era Madame Irma: portamento elegante, atteggiamenti accattivanti da antica maitresse, abito lungo nero con annesso cilindro, cornice di rose – così da identificarla anche con Notre Dame des Fleurs – intorno al volto dal trucco pesante e l’espressione androgina, dietro cui si celava lo stesso Punzo, che si svelerà essere il nostro personalissimo Virgilio, pronto a condurci in un viaggio di salvifica perdizione, di umana purificazione, di divina lascività, tra ascesi mistica e carnali voragini, dove ogni verità si trasforma in finzione, l’orrore diventa incanto, la santità coincide con la distruzione, il più limpido dei cieli si incontra – e scontra – con il più infimo degli inferi, mescolandosi indefinitamente. Sul nostro cammino ci imbatteremo in molteplici personaggi genettiani che ci descriveranno la loro umana iperbole (in prima persona e non in terza come accade nei romanzi): c’è la serva Solange (da “Les bonnes”) ingrigita dalla polvere, c’è Stillitano (da“Diario di un ladro”) eccessivo e di pessimo gusto con il suo kitsch rétro e coatto che ricorda il depalmiano Scarface di Pacino, c’è Divine (da “Notre Dame des Fleurs”) che fa elegia del proprio suicidio, e poi un prete, un cardinale, un papa, una geisha, una sposa cadavere, un generale nero (da “I negri”) che esalta il colore della sua pelle invitando i suoi simili a liberarsi dalle catene, e poi i tanti replicanti del marinaio Querelle, introdotti in sala da una poco pudica infermiera che diviene la maitresse Lysiane (alter ego di Madame Irma?) quando inizierà a cantare (come la divina Jeanne Moreau nel film di Fassbinder) “Each man kills the things he loves (Ogni uomo uccide ciò che ama)”, il verso de “La ballata del carcere di Reading” di Oscar Wilde, e poi tanto, tanto altro ancora. Tutti raccontano la loro storia, di vita morente, di dipartita edificante e vivificante, come splendidi angeli tornati alla loro essenza più luminosa proprio nel momento della caduta, nell’attimo esatto in cui, prima di trasformarsi essi stessi in icone, in umanissimi santi da ricordare in effige, hanno deciso di spiccare l’estremo salto verso quello che potrebbe apparire un infinito baratro e che, al contrario, è il primo passo verso un volo finalmente libero.
“Dobbiamo entrare per poter uscire”: le parole che Peter Gabriel (il cui soprannome – Arcangelo – calza a pennello con il nostro discorso) cantava nel 1974 nell’opera rock dei Genesis “The lamb lies down on Broadway” ci sono tornate immediatamente in mente non solo per quello che i nostri occhi, increduli davanti a cotanta meraviglia, riuscivano ad immagazzinare, rimandando il tutto ad un cervello spesso impossibilitato a comprenderne l’esatta portata, ma anche per il percorso umano celato dietro questa pietra miliare del nostro teatro. La storia della Compagnia della Fortezza è nota: Armando Punzo entra quasi per caso nel carcere di Volterra nel 1988 alla ricerca di un “teatro inaudito”, avulso alla finzione attoriale, di inflessibile ed implacabile verità (“Ero estraneo in un mondo estraneo. – dirà – Il teatro una terra straniera, e da straniero ne ho creato un mio idioma”); avrebbe dovuto restarvi poco più di un anno ed invece, per nostra fortuna, è ancora lì ogni giorno a creare, da geniale deus ex machina, qualcosa che non ha eguali, lasciando che le pareti di massima reclusione esplodano o, meglio, implodano, incapaci di contenere la bellezza dei suoi lavori, sempre in aperta ed incessante dissimulazione di una realtà che, incapace di evolversi, costringe ad un’altra, diversa e più alta visione attraverso il caleidoscopio dell’immaginazione, nel tentativo di “ripensare, rifare, rinominare il teatro, l’identità liquida, plasmabile contro le cristallizzazioni e la chiusura di luoghi che sembrano senza possibilità di fuga”, sempre scevri da intenti rieducativi, lenitivi o rasserenanti nei confronti tanto dei detenuti quanto degli spettatori, invitandoli, se non costringendoli, a scandagliare i più oscuri fondali della coscienza, precipitandoli e disperdendoli in un intricato dedalo inconscio, in modo che, soprattutto i secondi, possano comprendere che una prigione, pur essendo satura degli emarginati e dei reietti della nostra società, non è confrontabile con il carcere vero che è la società esterna, la stessa che ogni giorno ci ospita condannandoci ad una inesorabile contraffatta libertà. E tale ottica non poteva trovare miglior vate che in Genet, nella sua poetica visionaria e nel suo pensiero, che Punzo sembra incarnare alla perfezione sin da quella tremenda affermazione per cui “creare non è uno dei soliti giochetti un tantino frivoli. Il creatore s’è impegnato in un’avventura terrificante che consiste nell’assumersi egli stesso sino in fondo i pericoli corsi dalle sue creature”; ebbene, proprio alla stregua delle parole del poeta francese, il teatro della Fortezza non ammette sconti né tantomeno scappatoie, non si concede ma – semmai – eccede pur di liberarci per un attimo dalle nostre catene, lasciandoci danzare leggeri su divine note, per poi ricordarci il nostro orribile destino (“quando tornerete a casa, vedrete che tutto è molto più falso di quello che avete visto qui”), sconvolge e sovverte i legami tra realtà e finzione, tra segregazione e libertà, tra vita e morte (“se opponiamo la scena alla vita è perché abbiamo il presentimento che la scena sia un luogo prossimo alla morte, dove ogni libertà è concessa”), spalanca i nostri occhi rivelandoci verità ineluttabili quanto inconfessabili (“la bruttezza è bellezza in riposo”), ci procura un penetrante spasimo misto ad inconsolabile turbamento di fronte all’umana necessità di una impossibile felicità, ausculta ed amplifica ogni palpito del nostro cuore dal battito irregolare ed impazzito.
Aniello Arena, Mohammad Arshad, Placido Calogero, Rosario Campana, Eva Cherici, Gillo Conti Bernini, Nicola Esposito, Pasquale Florio, Ibrahima Kandji, Carmelo Dino Lentinello, Danilo Schina, Francesca Tisano, Alessandro Ventriglia, Giuseppe Venuto, Qin Hai Weng, Isabella Brogi, il contraltista Maurizio Rippa, Amelia Brunetti, Gregorio Mariottini, Andrea Taddeus Punzo de Felice, Tommaso Vaja, assieme allo stesso Punzo ed al compianto Antonino Mammino, scomparso lo scorso settembre ma il cui nome è sempre presente tra gli attori della Compagnia, formano un corpo solo, magnifico, che, grazie anche alle splendide musiche originali eseguite dal vivo da Andrea Salvadori, alle sublimi scene di Alessandro Marzetti, Silvia Bertoni e di Punzo, agli eccellenti costumi di Emanuela Dall’Aglio, alle superbe luci di Andrea Berselli, rende questo spettacolo unico, indimenticabile, che abbiamo accolto come un dono di inestimabile valore e di incomparabile bellezza; il loro è un profondo atto d’amore che, come i fiori che ci sono stati donati prima che noi stessi sentissimo la necessità di lanciarli verso i protagonisti a fine spettacolo, giunge dal palco in platea per poi tornare alla sua fonte centuplicato, perché, come diceva Genet, “una creazione che non abbia all’origine l’amore è inconcepibile”.