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“La storia dell’umanità è quasi totalmente una narrazione di progetti falliti e speranze deluse.” (Samuel Johnson)
Se “chi non conosce la storia è condannato a ripeterla”, allora quarant’anni valgono quanto un solo minuto, mentre un solo attimo può bastare a far mutare tutto, per sempre: basta un insignificante incidente o un – forse atteso – espediente, che determini una piccola accelerazione in una delle curve della memoria, un corto circuito della mente, e tutto può cambiare, per concederci una nuova possibilità o, forse, come la lezione del Gattopardo vorrebbe, per non cambiare mai. Può capitare così che oggi un funzionario dello Stato italiano, relegato nel piccolo mondo antico delimitato dalle quattro mura asfissianti ed oppressive del suo ufficio, possa tornare ad interrogarsi sulla sua posizione nei confronti del suo “datore di lavoro” nonché sulla sua visione d’insieme dello stato delle cose, a partire da argomenti futili sino a giungere a disquisire di temi alti quali la democrazia; l’input a tale tagliente analisi di coscienza gli viene offerto dalla visita inaspettata – e, pare, assai sgradita – di una misteriosa signora, incomprensibilmente penetrata, complice l’assenza della segretaria impegnata nel matrimonio di un familiare, nel suo triste ufficio del Ministero per – afferma lei – ripararsi dalla pioggia e far riposare i doloranti piedi, vittime di scarpe troppo strette, che, lungi dall’accettare gli inviti del funzionario ad allontanarsi, lo trascina in una discussione che muta continuamente nei toni e nelle risultanze, sino a giungere all’annuncio di un imminente, fulmineo colpo di stato, notizia che getta prima l’uomo nel panico per poi risvegliarne antiche pulsioni e – perché no – repulsioni che credeva ormai sopite, in un impeto rivoluzionario votato all’affermazione di una giustizia suprema che possa attuarsi anche nella nostra società, per poi tornare a mostrarsi in tutta la sua umana povertà, modestia, se non addirittura meschinità. Quando, infine, il funzionario sarà tornato in sé, ridestandosi dal suo sogno e scoprendo che la signora è esistita solo nella sua immaginazione, peraltro servendosi delle fattezze della sua segretaria, e tutto sembra tornato al grigiore della vita di sempre, il rumore dell’ennesimo tuono si fonderà con la chiara esplosione di una bomba, probabilmente il segnale dell’inizio della rivoluzione: di un intero popolo o di una sola coscienza? Non è dato sapere e, forse, nemmeno è importante di fronte al risveglio – questa volta reale – di una coscienza collettiva.
Quando, nel 1978, Aldo Nicolaj, autore eccelso della nostra drammaturgia, incomprensibilmente (o forse no) molto più rappresentato all’estero che sull’italico suolo, scrisse “La Signora e il Funzionario” realizzò ben più di un miracolo, innanzitutto per aver di fatto anticipato la storia, essendo l’opera andata in scena pochi giorni prima del rapimento di Aldo Moro, poi per aver saputo scandagliare in modo precisissimo l’umano sentire di un’intera generazione di reduci da “progetti falliti e speranze deluse”, ma soprattutto per essere riuscito a creare un testo a due personaggi che, attraverso la migliore satira, irriverente ma mai volgare, ironica ma non beffarda e canzonatoria, elegante senza essere d’élite, analizzava un periodo cupo come quello degli Anni di Piombo.
Le stesse prodigiose qualità devono essere riconosciute alla messa in scena realizzata dall’Associazione culturale Like a jazz e dalla Compagnia Teatro d’Oggi per la regia di Lisa Angelillo, che ne è anche interprete insieme a Carlo D’ursi, cui abbiamo avuto la fortuna di assistere in una delle tante affollatissime repliche tenutesi nella accogliente cornice del Teatro Angioino di Mola di Bari, un piccolo gioiello incastonato nel centro storico della città, che anche quest’anno, sotto l’ottima direzione artistica di Francesco Capotorto, ha saputo, non senza difficoltà, realizzare un cartellone di tutto rispetto. Se è possibile, anzi, la versione della Angelillo, che ha anche riscritto parte del testo regalandoci lo splendido finale cui abbiamo accennato, supera l’originale, passando al setaccio i nostri costumi sino a farci comprendere che quello che resta tra le nostre dita non ha più nemmeno la parvenza dell’oro ma è solo comune sabbia. Ben supportata nell’impresa dalle musiche di Paolo Daniele, dalle luci di Luigi Sassanelli, e dall’aiuto regia di Serena Palmisano, la regista ha tenuto fede all’iniziale dichiarazione d’intenti di “mantenere l’aspetto brioso dell’opera originale, facendo divertire il pubblico”, lanciando un messaggio molto forte “con una buona dose di risate, per farlo arrivare più in profondità”, operazione riuscita anche grazie all’esemplare recitazione dei due interpreti, che denotano un’intesa perfetta nella quasi totalità della pièce, entrambi assolutamente in parte, con D’Ursi talmente bravo da rendere semplice l’immedesimazione degli spettatori nel suo borghese piccolo piccolo e la Angelillo, ormai sempre più stella di prima grandezza, che, grazie anche ad un innegabile quanto invidiabile physique du rôle, rende con il corpo e con la voce (sembra che le battute le canti invece di recitarle) una interpretazione indimenticabile della protagonista nicolajana, con cui d’ora in poi chiunque vorrà affrontare il testo dovrà misurarsi.