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“Datemi il conto della lavandaia e vi metto in musica anche quello.”
Quando si parla di Gioacchino Rossini c’è una domanda che si ripete con tale assidua frequenza da essere diventato ormai un tormentone: come mai La gazza ladra, il capolavoro composto nel 1817 dal Maestro su libretto di Giovanni Gherardini tratto dal dramma “La pie voleuse ou La servante de Palaiseau” di Thèodore Badouin d’Aubigny e Louis-Charles Caigniez, viene così poco rappresentato, nonostante alcune sue pagine, come la magnifica Ouverture, siano universalmente note? Forse la risposta non c’è o, meglio, ce ne sarebbero tante, troppe, ed instaurerebbero delle polemiche senza fine. Eppure forse mai come ne “La gazza ladra” l’Opera del Genio pesarese può essere considerata moderna, pregna di una brillantezza senza tempo, in cui è evidente la centralità di tematiche sociali e civili, proposte in bilico tra la tragedia ed il sorriso, accompagnate da quell’inconfondibile tessuto musicale intrinsecamente gioioso che, tuttavia, spesso si vena di un più che palpabile senso di sconfitta, quello stesso che caratterizza la miserevole condizione umana sottoposta ai flutti ed alle correnti nel tempestoso mare della sorte. Opera difficile “La gazza ladra” – e sbaglia chi pensa il contrario – a partire dai temi affrontati, tutti attualissimi (ecco uno dei motivi – crediamo – delle scarse rappresentazioni), quali la malafede nell’esercizio della giustizia, l’abuso di potere, l’impotenza dei soggetti politicamente deboli nei confronti di quelli ai vertici delle istituzioni, lettura che non può non richiamare alla mente la tragica iperbole dell’eroina pucciniana Tosca e del suo Cavaradossi, naturalmente con ben altro epilogo rispetto a quello lieto voluto da Rossini e Gherardini per la loro Ninetta, giovane di bell’aspetto e buone maniere ma oltremodo sfortunata, che vede giungere all’orizzonte un po’ di felicità grazie al ritorno dalla leva militare del suo Giannetto, figlio del ricco fittavolo Fabrizio Vingradito presso cui la ragazza è a servizio, che ha promesso di sposarla, nonostante l’opposizione della madre Lucia. Dopo i festeggiamenti per l’arrivo di Giannetto, Ninetta riceve la visita del padre Fernando Villabella, ricercato dalla polizia perché colpevole di una grave insubordinazione; egli consegna alla figlia una posata d’argento pregandola di venderla in modo da poter fuggire con il ricavato; Ninetta la vende al merciaio Isacco, mentre la dannata gazza ladra allevata da Fabrizio ruba dall’argenteria di casa una posata in tutto simile, anche per la stampa delle iniziali dei rispettivi proprietari, a quella venduta. Lucia denuncia il furto, illegalità all’epoca punita con la pena capitale, all’immorale podestà Gottardo, ben felice di far arrestare e processare Ninetta, che da tempo perseguita – come Scarpia tormentava Tosca -, la cui colpevolezza sarebbe dimostrata dal possesso del denaro consegnatole dal mercante. Ninetta è condannata a morte e subisce la stessa condanna anche suo padre, accorso a raccontare la verità. L’opera si chiude con l’insperata salvezza di Ninetta grazie all’intervento del contadinello Pippo, anch’egli a servizio da Fabrizio, che scopre i furti della gazza ed il suo bottino nel campanile della Chiesa: Ninetta è libera proprio quando anche suo padre viene graziato dal Re.
La Fondazione del Teatro Petruzzelli di Bari ha fatto giustizia della ormai annosa assenza del titolo dai cartelloni dei più importanti Enti lirici affidando al capolavoro rossiniano finanche l’inaugurazione della Stagione Lirica 2017, recuperando in assoluto una delle migliori produzioni di sempre del melodramma, vale a dire quella ormai storica allestita in occasione del Rossini Opera Festival 2007, qui ripresa da Eleonora Gravagnola, che consacrò in via definitiva, grazie anche al riconoscimento del Premio Abbiati, il giovane regista veneziano Damiano Michieletto come uno dei talenti più fervidi e visionari del panorama operistico. Nell’immaginario michielettiano, tutto ha inizio dalla spiccata fantasia di una bambina che, al suono della splendida Ouverture, si gira e si rigira nel suo lettino, incapace di prendere sonno; parte così un gioco, una storia, un sogno forse, in cui la sua scatola di costruzioni cilindriche, il più infantile dei passatempi, diventa la splendida scenografia di Paolo Fantin, che, unitamente alle suggestive luci di Alessandro Carletti ed ai costumi di Carla Teti, tra il cartoon futuristico ed il mondo immaginato da Roger Waters per il suo incubo “The wall”, crea uno scenario da sogno in cui la piccola muove i personaggi della vicenda, autoassegnandosi il ruolo di gazza ladra, di sfasciatrice, di dispettoso folletto che, per intenti, assomiglia un po’ al Puck del Sogno shakespeariano. È la bambina la vera protagonista della favola che lei stessa crea, è lei che muove i fili dei suoi burattini, lei il destino, pronta a pentirsi, versando amare lacrime e gemiti inascoltati dagli adulti, delle sue nefaste azioni quando capirà che le sue scelte hanno fatto mutare lo scherzo in tragedia ed a tornare sui suoi passi, decretando il lieto fine; quando le sue stesse creature le si rivolteranno contro, la gazza/bambina riuscirà a svegliarsi dal suo sogno un attimo prima di essere fucilata, ritrovandosi nel suo letto ma scoprendovi uno degli oggetti rubati nella sua vita fantastica, vale a dire il berretto del fido Pippo, così da non comprendere più se vi sia una linea di confine tra il sogno e la vita reale e, soprattutto, se lei l’abbia superata.
Una edizione maestosa, magnifica, imprescindibile quella di Michieletto, con momenti di rara bellezza, come lo splendido finale del I atto, con l’acrobatica danzatrice italo – indiana Sandhya Nagaraja addirittura perfetta nel ruolo della bambina/gazza, capace, da sola, di regalare al pubblico momenti di vera magia. Ad una messa in scena di primissimo livello, così bella da ricordare la sublime mano del divino Giorgio Strehler, è stato giustamente abbinato un cast di tutto rispetto, dimostratosi all’altezza del non facile compito di rendere giustizia al titolo rossiniano, nonostante talune scelte registiche non proprio in linea coi dettami del bel canto (si ricordi, infatti, che per tutto il secondo atto i cantanti sguazzano su di un palcoscenico colmo d’acqua), con punte di eccellenza nel Podestà interpretato da Carlo Lepore, praticamente perfetto, nella Ninetta di Christina Daletska, a tratti sublime, e nel Pippo en travesti della bravissima Victoria Yarovaya, che probabilmente dà il meglio di sé nel patetico duetto del secondo atto con Ninetta, che hanno giustamente raccolto vere ovazioni al termine della lunga prova, cui si affiancavano degnamente Simone Alberghini, assai convincente nel ruolo di Fernando, Francisco Brito in quello di un timido Giannetto, Loriana Castellano in quello di un’altalenante Lucia, Davide Giangregorio e GianfrancoCappelluti, rispettivamente Fabrizio ed il Pretore, mentre la vis comica di Gianluca Bocchino gli faceva guadagnare un personale apprezzamento nel ruolo di Isacco, senza dimenticare i ruoli di contorno di Antonio, Giorgio ed Ernesto interpretati da Marco Miglietta, Stefano Marchisio ed Alberto Comes, tutti splendidamente diretti dal maestro George Petrou, che palesa sin dalla celeberrima Ouverture di saper tenere le fila della splendente partitura del Cigno di Pesaro, ottenendo il meglio tanto dal cast quanto dall’Orchestra del Petruzzelli, così come Fabrizio Cassi ha fatto col Coro del Teatro. Una più che ottima partenza per la nuova Stagione firmata Fondazione Petruzzelli.