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“Proprio sul filo della frontiera il commissario ci fa fermare, su quella barca troppo piena non ci potrà più rimandare, su quella barca troppo piena non ci possiamo ritornare”.
Oggi, per spiegare la genesi dell’Opera di cui vogliamo parlarvi, dobbiamo necessariamente partire da un fatto di cronaca, il cui ricordo pesa ancora sulle nostre coscienze come mastodontico macigno, chiedendo preventivamente perdono se, per farlo, ricorreremo, di tanto in tanto, al testo della canzone “Pane e coraggio”, pur non sapendo se Ivano Fossati abbia avuto la stessa fonte di ispirazione per comporla.
Il 28 marzo 1987, Venerdì santo di Pasqua, nel Canale d’Otranto la corvetta Sibilla della Marina Militare Italiana speronò la motovedetta albanese Katër i Radës (che può tradursi letteralmente Battello in rada), con a bordo centoventi profughi (anche se presumibilmente ve ne erano di più) di cui più di trenta erano certamente di età inferiore ai sedici anni, in fuga dall’Albania in rivolta, per contrastarne il tentativo di approdo sulle coste italiane, procurandone il naufragio. I superstiti furono solo 34. Il relitto della motovedetta è divenuto monumento memoriale nell’opera dell’artista greco Costas Varotsos “L’approdo – Opera all’Umanità Migrante”, esposta in quel di Otranto, la cui visione ancora adesso procura emozioni fortissime al pari di quelle che si provano nel visitare il nuovo museo di Lampedusa dove sono raccolte scarpe, biberon, testi del Corano deformate dall’acqua marina (“Chi, se non una persona civile al più alto grado, include nel suo minimo bagaglio un libro? Quelle pagine, non annegate con il loro lettore, sono la più forte testimonianza: non del loro diritto di asilo, ma del nostro dovere di darlo”, dirà Erri De Luca commentando positivamente il gesto di Papa Francesco I quando, come primo pellegrinaggio del suo incarico, si recherà a Lampedusa per gettare una corona di fiori in acqua).
“E sì che l’Italia sembrava un sogno steso per lungo ad asciugare, sembrava una donna fin troppo bella che stesse lì per farsi amare, sembrava a tutti fin troppo bello che stesse lì a farsi toccare. E noi cambiavamo molto in fretta il nostro sogno in illusione, incoraggiati dalla bellezza vista per televisione, disorientati dalla miseria e da un po’ di televisione”.
Inspiegabilmente, solo nel 2000 si giunse ad una interpellanza parlamentare che chiedeva di riferire in merito alla presunta “grave responsabilità dei vertici militari e politici nell’affondamento della nave albanese”, e solo nel 2013 Romano Prodi, all’epoca dei fatti Presidente del Consiglio, parlando del disastro ammise che “la sorveglianza dell’immigrazione clandestina attuata anche in mare rientra nella doverosa tutela della nostra sicurezza e nel rispetto della legalità che il governo ha il dovere di perseguire”. Fiumi di inchiostro si sono spesi sulla vicenda; uno degli interventi più luminosi ed illuminati, come sempre, giunse proprio dalla penna di Erri De Luca che, nel tentativo di spiegare l’involuzione europea sulla questione immigrazione, scrisse: “A forza di naufragi di terra e di mare l’Europa ha progredito nel suo vocabolario: a inizio di naufragi usava la parola ‘clandestini’. Molte stragi più tardi li ha chiamati ‘migranti’, poi ‘profughi’, infine ‘rifugiati’, anche se il rifugio è concesso in poche zone. Per gli annegati, per i soffocati nei camion, sono soddisfazioni. Coi loro corpi, con le loro vite seminate a concime, hanno modificato il vocabolario d’Europa”.
“Pane e coraggio ci vogliono ancora, che questo mondo non è cambiato; pane e coraggio ci vogliono ancora, sembra che il tempo non sia passato; pane e coraggio, commissario, che c’hai il cappello per comandare; pane e fortuna, moglie mia, che reggi l’ombrello per riparare, per riparare questi figli dalle ondate del buio mare e le figlie dagli sguardi che dovranno sopportare, e le figlie dagli oltraggi che dovranno sopportare”.
Della tragedia della motovedetta albanese ha scritto anche il tarantino Alessandro Leogrande nel suo romanzo reportage del 2011 da cui lo stesso autore ha tratto il libretto che, grazie alla musica del compositore albanese Admir Shkurtaj, è divenuto “Katër i Radës. Il naufragio”, la sublime Opera da camera dei Cantieri Teatrali Koreja, commissionata dalla Biennale di Venezia per essere presentata per la prima volta nel corso della Biennale Musica 2014 ed inserita, per nostra fortuna, nell’annuale cartellone del Teatro Kismet Opera di Bari, che, sinora, ci ha riservato esclusivamente capolavori, categoria cui indubbiamente questo spettacolo appartiene.
Al suo ingresso, il pubblico viene gentilmente accolto e fatto accomodare ai bordi del palcoscenico, così da creare immediatamente un totale coinvolgimento, quasi che potessimo divenire noi stessi canale, delimitante il viaggio dei disperati che saliranno a bordo di quella che diverrà la loro tomba, qui materializzatasi in una struttura mobile, che richiama alla memoria le tante, troppe chiatte che ancora solcano i nostri mari alla ricerca di una salvezza spesso negata, a fatica guadagnata da un gruppo di disperati accompagnati dai loro pesanti fardelli di stracci di vita passata. Su di loro, e su di noi naturalmente, tutti accomunati nella nostra sorte di poveri mortali, si staglia il potere costituito, che, nel suo linguaggio tecnico quasi incomprensibile, decide le sorti dei propri simili, intenti, al contrario, a creare un linguaggio universale (e la musica lo è per eccellenza) che possa spiegare le ragioni della loro pacifica invasione (“non un’arma sola rechiamo con noi, ma solo figli, muti di freddo”), sospinti dal malinconico canto dei padri, che giunge dall’altra parte del mare, ed attirati da nuove sonorità jazz, che hanno lo stesso effetto che ebbe il canto delle Sirene per l’impavido Ulisse. Ma questo pugno di esuli non condividerà l’epilogo del viaggio dell’eroe omerico, non volendo per alcun motivo far ritorno alla sua infelice terra.
“Nina ci vogliono scarpe buone e gambe belle, Lucia. Nina ci vogliono scarpe buone, pane e fortuna e così sia, ma soprattutto ci vuole coraggio a trascinare le nostre suole da una terra che ci odia ad un’altra che non ci vuole.”
In questo scenario di speranze e disperazione, si compirà il tragico destino della Katër i Radës, ricacciata indietro dal sovrastante autoritario potere a suon di speronamenti che ne procureranno l’affondamento, da cui riaffioreranno solo pochi indumenti, tra cui spicca un cappottino rosso che probabilmente, nel richiamare una nota figura spielberghiana di schindleriana memoria, vuole creare un ideale ponte tra due delle più assurde, incomprensibili e disumane tragedie che la Terra abbia affrontato (nonché partorito), l’ultima delle quali – ricordiamolo sempre – non appartiene al nostro passato ma al nostro peggior presente, e la cui fine – purtroppo – è ancora drammaticamente in là da venire.
“Proprio sul filo della frontiera, commissario ci fai fermare, ma su quella barca troppo piena non ci potrai più rimandare, su quella barca troppo piena non ci potremo mai più ritornare.”
La regia di Salvatore Tramacere, geniale eminenza grigia del gruppo salentino, qui assistito da Emanuela Pisicchio, è perfetta, come pure le scene e le luci di Michelangelo Campanale ed i costumi di Stefania Miscuglio, nel rendere la non facile messa in scena in modo da scardinare le nostre assopite – se non del tutto addormentate – coscienze, riunitesi, finalmente visibilmente, in un unico afflato per tutta la durata della piéce sino a quel finale che resterà indelebile nelle nostre memorie. Splendido tutto il cast di attori / cantanti, Simona Gubello, Alessia Tondo, Stefano Luigi Mangia, Maria Luisa Casali, Emanuela Pisicchio, Anna Chiara Ingrosso e Fabio Zullino, creta viva, pulsante e preziosa nelle mani di Tramacere e del direttore d’orchestra Pasquale Corrado, alle prese con la non facile partitura eseguita dallo stesso autore Shkurtaj e da Marco Ignoti, Giorgio Distante, Jacopo Conoci, Vanessa Sotgiu e Pino Basile, cui deve aggiungersi il fondamentale apporto del coro polifonico di canti tradizionali albanesi I violini di Lapardhà, tutti elementi che fanno di Katër i Radës. Il naufragio un’Opera necessariamente da vedere e da sentire, non solo nei padiglioni auricolari ma, anche e soprattutto, sottopelle.
Don Andrea Gallo amava ripetere che “chiunque incontri è tuo fratello, figlio, figlia; non ci sono fratelli e sorelle di serie B, C e D. Su tutte le difficoltà riguardanti l’immigrazione, dico: diamo prima l’accoglienza e poi le difficoltà le affronteremo”; strano che a ricordarcelo, oggi, sia stato un apparentemente insignificante cappottino rosso, tratto dalle acque del mare e steso a gocciolare sulle nostre teste, all’infinito.