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Nuovo appuntamento con la rubrica domenicale "Storie di film e dintorni". A che punto eravamo?
Esaurita, velocemente, la parentesi sanremese, torniamo al cinema.
A quel cinema a cui ci ha abituato Vittorio De Sica, a quell’opera umana e commovente che racconta la vita di tutti i giorni, dei ricchi e dei poveri, una favola che affonda le sue radici nel miglior periodo del neorealismo e narra, ancora una volta, di un ‘figlio della colpa’ abbandonato e lasciato in un orto tra i cavoli com’era nella favole che si raccontavano ai bambini.
Il film, Miracolo a Milano, sullo schermo del cinema Impero dal 9 febbraio, è un lavoro fatto col cuore, una fiaba semplice, tratto da un romanzo di Cesare Zavattini, adattato al cinema dallo stesso autore, da Vittorio De Sica e dalla brava e sensibile Suso Cecchi d’Amico presente ormai in tutte le opere di buon livello. Anche Miracolo a Milano si presta al gioco di società allora in voga fra i critici cinematografici politicizzati, ma finisce per scontentare tutti: i laici della Democrazia Cristiana lo giudicano troppo evangelico, eversivo e d’ispirazione comunista; i progressisti di sinistra lo definiscono ‘consolatorio’, ma i sovietici non lo vollero sui loro schermi, l’opera non era in linea con i dettami della rivoluzione. Virgintino, invece, nella sua recensione, supera le opposte fazioni: "questo ‘miracolo’ è un’opera che non partecipa né di credi né di ideologie correnti, ma sibbene contempla l’uomo con le sue virtù e i molteplici difetti. Nato sotto il segno dell’intelligenza, temperata da uno squisito calore di bontà e di fratellanza, nella lotta tra ricchi e poveri De Sica guarda con la stessa intensità gli uni e gli altri. Si potrebbe sostenere che in Miracolo a Milano ci sono delle pagine di De Sica e altre di Zavattini; pagine splendide del primo e pagine in sordina del secondo che sanno di elaborato dallo scrittore. Ma nel ‘regista’ e non nello ‘scrittore’ abbiamo riconosciuto la tempra e la forza di un artista". Mirabile l’interpretazione di Emma Gramatica, ottimo Paolo Stoppa.
Come sempre accade per questi film, tutti, attori, registi e sceneggiatori si godono le lodi dei critici e i premi, Palma d’Oro a Cannes, Nastro d’Argento per la scenografia a Venezia, i critici cinematografici di New York lo hanno proclamato il miglior film straniero dell’anno, ma in quanto all’accorrere del pubblico alla cassa, che per gli autori e produttore è il premio più ambito, non se ne parla, il ‘piatto’ non ha pianto, e rimasto vuoto. Miracolo a Milano è costato 180 milioni di lire, un’enormità per l’epoca, per un film con una scenografia abbastanza spoglia. Ma a far lievitare di molto le spese di produzione furono gli effetti speciali affidati a tecnici americani.
Un grande successo di pubblico, invece, è il film di André Cayatte Giustizia è fatta al Santalucia dal 15 febbraio. Il regista francese è il tipico personaggio alla ricerca di se stesso: laureato in legge, avvocato con tanto di studio legale a Parigi, fra un dibattimento e l’altro scrive poesie, romanzi, pratica il giornalismo, edita riviste letterarie e infine approda al cinema. All’inizio si accontenta di collaborare come sceneggiatore, poi diventa co-autore, aiuto regista e infine regista… di scarso successo.
Poi, qualche flash-back della sua antica professione deve avergli fatto scattare la scintilla… e realizza Giustizia è fatta un film che traduce le sue esperienze legali con lo spettacolo e il cinema. Virgintino scrive: "è un’opera eccellente, anche se non reca l’impronta del capolavoro. È un film da vedere che eccita la discussione, che appassiona anche se lascia perplessi" poiché lo stesso recensore dubita che sia moralmente lecito affermare, alla fine di un processo con giudizio umano, che Giustizia è fatta poiché "la giustizia fatta dagli uomini è sempre relativa, la giustizia vera è imperscrutabile e appartiene a Dio". La trama dell’opera di Cayatte conferma la sua tesi. Nella pellicola sette giurati devono giudicare una donna che sostiene di aver aiutato a morire l’amante, gravemente ammalato, iniettandogli una dose letale di morfina: eutanasia o omicidio? Nel film Cayatte trascura l’imputata alla sbarra per focalizzare l’attenzione sui giurati e raccontare brandelli e travagli di vita quotidiana di ognuno, allo scopo di dimostrare in definitiva che il loro giudizio è viziato dal loro stato d’animo, dalle vicende personali.
Né Cayatte si astiene dal propendere per l’eutanasia "tesi sostenuta con eccessivo zelo – commenta Virgintino – ma ciò non toglie merito all’ingegnosità del film, al suo acuto interesse, alla sua solida e mirabile costruzione basata su una cesellata sceneggiatura, al suo ritmo scandito su toni drammatici e leggeri, alla sua nobiltà". Un’opera originale premiata dal pubblico e dal Festival di Venezia con il Leone di San Marco, il massimo riconoscimento della manifestazione italiana.