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Certo, il titolo può spaventare. Decido di leggere un racconto in autobus, in treno, su una panchina in attesa dell’amica, e i passanti curiosi che spiano il titolo, violando la mia privacy letteraria, ma non per questo condannabili, mi guardano con compassione e pietà. La verità però è che questi racconti hanno come corpo la vita e come epilogo la morte, come è ovvio, in ogni esistenza di questo mondo. Bartolo Anglani ha restituito al racconto la sua vera essenza, un elastico teso che si scarica tutto alla fine. La sua scrittura non ha niente di superfluo, ogni parola ha una sua ragion d’essere, lo scrittore stesso lo descrive così :“si tratta di piccole sonate, ogni racconto ha una chiave e un tempo, e segue le regole della composizione: modulazioni, accelerazioni e rallentamenti, a volte dissonanze.” Si inizia un racconto e sembra già di conoscere i personaggi, i luoghi, che ci sembrano familiari, e familiare ci sembra lo scrittore con il suo tipico modo di scrivere, con i suoi tarli e le sue manie. Non a caso ho pensato subito che dovrebbe essere famoso in tutto il mondo, ma a quanto pare la celebrità non fa bene a nessuno e se sei uno scrittore famoso, alla fine ti ritrovi a scrivere quello che vogliono che tu scriva, per vendere e per essere al passo con i tempi. Vorrei invece ritrovarlo in libreria negli scaffali dei classici, o forse si dovrebbe creare un nuovo genere letterario chiamato “i nuovi classici”, si creano così tante cose adesso, perché no? Con questo non voglio dire che sia un classico, perché con loro nessuno può avere niente a che fare, ma dalla sua scrittura traspare l’amore per la vera letteratura, quella grazie alla quale si dovrebbe scrivere.
La narrazione è un continuo prestito dal nuovo e dal vecchio, uno scrittore del passato si sarebbe sognato di non fendere i dialoghi con tutti i suoi trattini e i suoi “rispose” e “disse”. Ma questa è l’abilità moderna, che Bartolo Anglani arricchisce con le sue strampalate personalità e la sua fantasia reale. Ritroviamo il fantastico, lo scabroso, l’ironia, nel contesto del secolo in cui viviamo, ma sempre in termini molto moderati, della vita di tutti giorni, senza ammorbarci con i problemi di cui tutti parlano e che tutti, infondo, ignorano. C’è Belzebù, c’è un mago, un padre, un cappello, un figlio, c’è un angelo custode, una figlia, il Purgatorio, una madre, un’idea e tutti insieme vivono, ci parlano, ci raccontano, e ognuno di loro ci domanda, ci interroga, e svolge il suo compito, quello che la letteratura dovrebbe fare: suscitare interrogativi, senza dare mai risposte.
“ Nessuno dice: ‘Voglio morire’. Sarebbe troppo banale. Ma a un certo punto si comincia a morire, ossia si comincia a decedere. A dimettersi dalla vita. È un attimo. La coscienza – o forse l’inconscio, non so, ai miei tempi queste parole non si usavano – dice fra sé: ‘ Non ne posso più’. Un micromilionesimo di secondo. Ma basta. Il corpo riceve un ordine, come si dice adesso? una specie di input. Ha mai sentito parlare di quei calcolatori con il virus, che hanno in sé, programmato, il processo della loro autodistruzione? Per mesi, anni, il computer lavora, funziona, vive, come se nulla fosse. Ma nei suoi meandri è agguattato un virus, con una data precisa, un’ora e un minuto e un secondo scolpiti dentro. Tutto sembra procedere normalmente, lei sta compilando, non so, la lista della spesa, ed ecco che lo schermo si abbuia. Può premere tutti i tasti che vuole, il suo meraviglioso congegno è, per così dire, morto. Defunto. Deceduto. Più o meno così è fatto l’uomo. Non appena l’inconscio mormora, magari anche senza convinzione, magari per far dispetto a qualcuno: ‘ Non ne posso più’, ecco che il processo si mette in moto. L’inconscio l’ha fatto partire, ma non può più fermarlo. Poteva non farlo partire: lì era la sua libertà. Ma una volta che, del tutto liberamente, l’ha innescato, non può fare più nulla. Dal nulla, ha fatto nascere un destino.”