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«Un pò vinili e un pò iPod’’. Non «incendiari», ma «supercazzolisti». E soprattutto, «precari di lavoro e di ideologie, di appartenenze e di certezze, di utopie e di fobie. Precari, precari sempre». Non usa mezzi termini il giornalista Andrea Scanzi quando, nel suo libro «Non è tempo per noi. Quarantenni: una generazione in panchina», si riferisce a chi, come lui, è nato negli anni ’70. In poco meno di 200 pagine (il libro, uscito per la prima volta nel novembre 2013, è stato ora appena ristampato da Rizzoli in una edizione aggiornata con due nuovi capitoli), l’autore coglie tutto quello che ha caratterizzato il percorso dall’infanzia all’età adulta dei quarantenni di oggi. C’è la musica innanzitutto, e non solo nel titolo – «Non è tempo per noi» è la canzone di Ligabue molto nota per l’appunto a chi si colloca tra i 30 e i 40 anni, e Scanzi la rievoca continuamente come un mantra -, ma poi arrivano anche i film, i libri, i personaggi dello spettacolo e della politica: sono questi gli strumenti utilizzati per comporre, tra miti e delusioni, il ritratto (che poi in primis è un autoritratto) di un esercito di adulti disorientati e intorpiditi, forse ancora impreparati non tanto a prendere in mano la propria vita quanto a fare la differenza sul futuro.
Scanzi procede come un bulldozer, con il consueto piglio tagliente – quello a cui ci ha abituato nei suoi articoli e negli interventi nei dibattiti – e quindi senza fare sconti a nessuno, prima di tutti a se stesso. Non c’è rassicurazione nè conforto, ma la lettura procede piacevole, grazie alla prosa ben scritta e ironica. Mentre li osserva fare lo slalom e inciampare tra mugugni e finte rivendicazioni, Scanzi rivela ai suoi coetanei rassegnati e velleitari la vera malattia che li affligge, il «gattopardismo» del «tutto cambia affinchè nulla cambi».
Al tempo stesso però vuole metterli in guardia nei confronti del nuovo che avanza: ossia Renzi, definito «veltronino pacioccone e quasi-blairiano» e «Berluschino, munito pure di bandana bianca d’ordinanza», e il renzismo, ossia «desiderio di potere, ambizione, impreparazione, democrazia autoritaria, fatto di tanti personaggi che, se da un lato non fanno rimpiangere chi li ha preceduti, dall’altro non promettono nulla di buono per il futuro.
Forse i suoi detrattori potrebbero dire (e a dirla tutta se ne ha a tratti l’impressione) che qualche giudizio al vetriolo nei confronti di quello o quell’altro personaggio sia stato inserito nel testo da Scanzi magari solo per essere all’altezza della propria immagine pubblica – che lo vuole penna graffiante e poco conciliante, opinionista caustico e ironico, sempre pronto a critiche sferzanti – e non tanto per completare il senso di un ragionamento.
Eppure, non si può dire che l’autore non abbia riflettuto, al di là della verve ironica del suo stile, su questa generazione che «non ha perso e neanche pareggiato» ma che «ha restaurato. Che è molto peggio»: con intelligenza ha sottolineato i punti deboli, le mancanze, le colpe così come le fragilità. Lo «sdegno» bonario e la presa in giro si alternano a guizzi di perspicacia che rendono questo libro una sorta di confessione allo specchio, e non solo per i nati negli anni ’70. Un modo per guardarsi a 360: innanzitutto dentro, per prendere consapevolezza e, con l’occasione, anche alle spalle, verso chi ci ha preceduto, e poi fuori, verso il mondo. Un mondo del quale, in teoria, dovremmo risolvere le contraddizioni, o quanto meno provarci.
ANDREA SCANZI, «Non è tempo per noi. Quarantenni: una generazione in panchina» (Rizzoli, pp.192, 9 euro).