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Soldi, soldi, soldi. Una grande potenzialità per il cinema, ma anche la sua insidia più grande. E così, dopo Harry Potter e Twilight, anche la saga di Hunger Games decide di sdoppiare il capito finale e raddoppiare gli incassi. I risultati però sono a dir poco discutibili. L’atmosfera è sempre quella di un futuro distopico che si colora di tinte apocalittiche. Gli Hunger Games sono finiti. La guerra no. Anzi è appena cominciata, perché il fuoco della ribellione arde ormai nei distretti di Panem, rasi al suolo dal presidente Snow. Roccaforte della resistenza all’attacco mosso da Capitol City è il Distretto 13. Ed è qui (ovviamente!) che si risveglia l’ormai amata eroina Katniss Everdeen, salvata dall’arena in cui l’avevamo lasciata in Hunger Games: La ragazza di Fuoco. Guarda caso, la Ghiandaia Imitatrice è destinata a diventare il volto mediatico della rivolta. Mediatico come mediatico si prospetta lo scontro.
In Hunger Games: Il canto della rivolta – Parte I il potere è infatti tutto nel possesso dei mezzi di comunicazione. Chi ottiene l’accesso ai media riesce a conquistare seguaci e progettare le sue mosse. Rispetto agli episodi precedenti, il bersaglio della critica dunque cambia. Non più il terrificante mondo dei reality, ma i mezzi di comunicazione. Controllare l’informazione significa assoggettare i popoli e governare le coscienze, spingendole verso direzioni definite. Katniss e Peeta, tenuto prigioniero da Snow, adesso svestono i panni degli eroi autentici e (loro malgrado!) diventano le icone di una strategia pubblicitaria attuata dalle fazioni contrapposte per guadagnare consensi. La guerra inizia dunque a suon di spot e contro-spot, usati da Katniss e dal Distretto 13 per aizzare la fiamma della ribellione e dal presidente dittatore per spegnerla.
La pubblicità dello scontro va però troppo per le lunghe. La tensione a lungo andare si smorza. Si ha la sensazione che il film stia sempre per decollare verso l’atteso scontro, ma puntualmente le aspettative rimangono deluse. La rivolta non la vediamo. L’azione è assente e gli sceneggiatori Peter Craig e Danny Strong sopperiscono a questa mancanza dando alla storia un risvolto intimistico. I tempi morti della narrazione cinematografica sono riempiti dai dubbi esistenziali della Ghiandaia Imitatrice, divisa tra l’amore per Peeta (inspiegabilmente favorevole a Capitol City) e l’odio per il presidente Snow. Tuttavia nemmeno questo viaggio tra le emozioni e i sentimenti dell’eroina arriva fino in fondo. Non c’è nulla di veramente emozionale e tormentato in questa lotta interiore e la figura di Katniss, anzi, ne risente in termini di definizione e forza del personaggio. Mancano totalmente i colpi di scena e quel senso di apprensione che invece vengono fuori dalle prime due puntate.
Eppure questo capitolo dovrebbe essere il momento dello scontro finale, l’apice della storia. Invece non lo è. La smania di guadagni ha trasformato il terzo episodio in un film di stallo, in un momento di passaggio privo di contenuto e significato ai fini di una saga che così perde un po’ di qualità. Hunger Games: Il canto della rivolta – Parte I è un preambolo troppo lungo che avrebbe potuto (e dovuto!) essere riassunto in 30 minuti e invece è diluito in 120. E’ un amo per ritrascinare lo spettatore (e i suoi soldi) al cinema nell’attesa del vero grande finale (in uscita nel 2015). E’ un’aspettativa delusa. E la domanda sorge spontanea: valeva la pena macchiare la qualità artistica di un’intera saga, con un episodio che sa di business più che di cinema?
Hunger Games: Il Canto della Rivolta – Parte 1 (Usa, 2014, fantascienza)
Regia: Francis Lawrence
Cast: Jennifer Lawrence, Josh Hutcherson, Liam Hemsworth, Woody Harrelson, Elizabeth Banks, Julianne Moore, Philip Seymour Hoffman, Jeffrey Wright, Stanley Tucci, Donald Sutherland, Toby Jones, Willow Shields, Sam Claflin, Jena Malone, Natalie Dormer, Lily Rabe, Wes Chatham, Elden Henson, Omid Abtahi, Robert Knepper.
Uscita: 20 novembre 2014