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“Quello che è l’amore per l’anima è l’appetito per il corpo. Lo stomaco è il maestro che dirige la grande orchestra delle nostre passioni. Mangiare, amare, cantare, digerire sono i quattro atti di quell’opera comica che è la vita!” [Gioachino Rossini]
“Il barbiere di Siviglia” ha una sua particolarissima caratteristica, quasi una missione: quella di trovarsi sempre e comunque nelle condizioni di innegabile spartiacque. È sempre stato così, sin da quel lontano 20 febbraio 1816 quando si levò il sipario del Teatro Argentina di Roma sul capolavoro che Gioachino Rossini, complice il libretto di Cesare Sterbini, aveva magistralmente tratto dalla omonima commedia di Beaumarchais; infatti, nonostante l’iniziale insoddisfazione del pubblico, che decretò l’incomprensibile fiasco della prima rappresentazione, l’Opera del genio pesarese costituì l’esempio più fulgido dell’Opera buffa e della ormai chiara rottura con gli schemi del passato, in particolare con l’epoca barocca. E con Rossini le differenze saltano immediatamente all’occhio ed, ancor più, all’orecchio: laddove i personaggi si stagliavano per i loro ideali, rappresentando i valori più alti dell’essere umano, ora erano chiamati ad affrontare le piccole lotte con l’umano e quotidiano vivere, con una visione che partiva dal basso, dal popolo, alla stregua dei profondi cambiamenti culturali e sociali in atto nella società di fine Settecento; laddove le voci degli interpreti brillavano di luce accecante, spesso soffermandosi su orpelli virtuosistici, oggi si richiedeva maggiore presenza scenica, in una concezione della rappresentazione che si faceva totale.
Tutto questo noi lo abbiamo ritrovato nella strepitosa edizione del Barbiere cui abbiamo assistito nei giorni scorsi, fortemente voluta dalla Fondazione Petruzzelli, in cui tutto ci è parso perfettamente in linea con gli intenti rossiniani, a partire dalla geniale intuizione di spostare la scena di questo “bignami” dell’Opera (poco più di un’ora di rappresentazione in cui trovavano posto solo le arie più famose) in uno studio televisivo del tutto simile a quello cui ci hanno abituato l’emaciato Morgan, qui spesso omaggiato (o dileggiato?), ed i suoi accoliti allorquando cercano di mettere in luce la presenza del fattore X nella malcapitata aspirante star, qui impersonificata dalla virginea Rosina (una convincente Pervin Chakar) che, innamorata della voce del Conte d’Almaviva (Christian Collia) tenta di sfuggire alle attenzioni del viscido produttore Don Bartolo (il nostro Domenico Colaianni), infine riuscendovi grazie all’incommensurabile aiuto del parrucchiere dello studio televisivo, tale Figaro (un Giorgio Caoduro in stato di grazia). La rivisitazione di Francesco Esposito e Giuseppe La Malfa, rispettivamente anche regista e direttore d’orchestra, convince appieno, così come le scene ed i costumi di Tommaso Lagattolla, risultando perfetta finanche nella caratterizzazione dei personaggi, dal Morgan – di cui si è già detto – alternativamente affidato al maestro di canto Don Basilio o al Conte en travesti, sino al Figaro a metà tra un giullaresco Crozza ed un fantomatico genio della lampada, avvezzo, per l’appunto, a risolvere un po’ magicamente ogni situazione.
Di forte impatto l’esecuzione dell’Orchestra del Petruzzelli, del tutto a proprio agio con le sublimi note rossiniane, non esattamente come tutti gli artisti impegnati, la cui bravura attoriale non sempre era all’altezza delle doti vocali; ma tant’è, possiamo ritenere che anche questo rientrasse tra i dettami dell’Opera buffa. Ma quel che ci piace oltremodo sottolineare è che questo allestimento del nostro Teatro, nato per far fronte ai nuovi problemi economici che lo attanagliano e che hanno determinato la cancellazione di ben due opere, è stato creato – ed ecco tornare lo spartiacque di cui sopra si è detto – per catturare un pubblico del tutto particolare che, a nostro modesto parere, merita ogni attenzione, vale a dire il pubblico delle ‘orde’ (sia detto con tutto l’affetto possibile) degli alunni delle nostre scuole elementari e medie, che hanno mostrato di gradire l’operazione, palesando un gusto sopraffino che tanti spettatori di ben più avanzata età non sempre riescono ad avere.