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In un remoto paesino scozzese, Aaron (George McKay) è l’unico sopravvissuto di un misterioso incidente in mare in cui hanno perso la vita cinque uomini. Uno di questi è suo fratello Michael. Vittima della superstizione ed emarginato dalla comunità, il giovane decide di tornare nell’oceano per ritrovare il fratello, che crede ancora vivo. Potrebbe sembrare una storia ricca di azioni, invece il regista e sceneggiatore Paul Wright sceglie una narrazione intima e complessa per esordire nell’ambito dei lungometraggi. “Il superstite” è una vicenda d’amore e odio, è il racconto di una ricerca prima di tutto interiore, portata avanti da un ragazzo solo e incapace di affrontare razionalmente gli eventi. Aaron non accetta la morte di Michael e si rifugia nella convinzione che il fratello sia rimasto intrappolato nella pancia di un mostro marino. Questa idea trascina lui e lo spettatore in una dimensione onirica, in cui reale e immaginario si fondono.
Wright affronta la storia da una prospettiva originale e mostra gli eventi attraverso la mente disturbata del protagonista. Ciò che si vede non è la ‘realtà’ ma l’immagine che Aaron si è costruito di essa. Ogni cosa è nella sua testa e i suoi pensieri diventano la voce che guida lo spettatore in un intimo flusso di coscienza. Man mano che la storia procede, il racconto diventa però sempre più ambiguo, si aggiungono nuove prospettive e nascono dubbi sulla natura dell’incidente e sui veri sentimenti che Aaron prova per il fratello. Accanto al percorso di accettazione della perdita, s’insinuano l’ombra del senso di colpa e la necessità di pagare i propri errori. Tensione e inquietudine si moltiplicano, anche grazie all’uso sapiente del suono e all’aiuto di una regia frammentata che mescola scene in digitale con immagini sgranate e in bianco e nero. Finché alla fine, il ‘superstite’ compie un’azione estrema che si concretizza in un’immagine suggestiva e allegorica, in cui realtà e ossessione sono ormai dimensioni inscindibili.