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L’ultimo editoriale è apparso sulla Gazzetta del Mezzogiorno il 7 settembre scorso. Un articolo ‘diverso’ da quelli che immancabilmente scriveva, ogni sabato, su quel ‘foglio’ che è sempre stato il ‘suo’ giornale. È un ricordo struggente di quando giovinetto, in divisa da Balilla, l’avevano portato a Bari dall’allora ‘lontana’ Locorotondo, dov’era nato, per vedere la grande città, il mare, la Fiera del Levante per la prima volta. Era un articolo raro: difficile che negli attesi appuntamenti con i lettori della Gazzetta si lasciasse trasportare dai ricordi personali. Per quelli scriveva libri.
Gli editoriali del sabato erano lucidi commenti politici che arricchiva con il suo enorme serbatoio culturale. Un quotidiano, diceva, deve privilegiare l’informazione, anche quando si occupa di cultura e lui, nonostante l’età, era sempre sulla notizia.
A luglio aveva scritto, con la consueta autorevolezza, un editoriale sulla tragedia che colpiva la gente di Taranto «una città che nell’età moderna non è mai stata arbitra del proprio destino. Per lei hanno deciso gli altri. Potrebbe dirsi vittima della sua posizione strategica nel cuore del Mediterraneo, come ora è vittima del più umano dei ricatti: il bisogno del lavoro».
Quel ‘bisogno’ inalienabile della gente ha prodotto il mostro del siderurgico, una nuova classe operaia e posto una tossica ipoteca sul futuro della città. Erano gli anni del ‘boon’ economico, gli anni in cui si reclamava una fabbrica per ogni campanile. Solo che il Meridione ha avuto gli scarti, le fabbriche inquinanti: le acciaierie, i petrolchimici, le raffinerie, seminatrici di malattie, di tumori, di morte.
«Adesso un altro potere si è levato contro il ‘mostro’ di Taranto: la magistratura. È un potere giusto e sacrosanto ma quasi astratto, atemporale, che improvvisamente sovrasta ogni altro potere uscendo come un fantasma dal buio del silenzio. Meglio tardi».
Ecco, questo era Giacovazzo soltanto qualche settimana addietro e così era nel 1979 quando fu chiamato alla direzione politica della Gazzetta del Mezzogiorno dove molti anni prima, nel 1958, aveva iniziato il suo percorso professionale collaborando per la mitica terza pagina all’epoca curata personalmente dall’esigente direttore Luigi De Secly.
Giacovazzo era nato il 6 settembre 1925 in quella splendida cittadina che si affaccia sulla Valle d’Itria. Dopo gli studi classici e una giovani passione per il teatro e la Juventus che ‘amava’ come un ultrà, comincia a frequentare un piccolo gruppo di ragazzi che si riconoscevano nelle idee politiche del giovane professor Aldo Moro. Più tardi entra nel Gruppo dei meridionalisti pugliesi e nel 1961 entra nel corpo redazionale della Gazzetta dove due anni dopo è già capo redattore. Nel 1967, infine, emigra nella Capitale chiamato dalla RAI per curare il settore culturale del TG1.
A Roma, grazie alla sua formazione e posizione in RAI, allaccia rapporti amichevoli con personaggi d’ogni credo politico e culturale. Aperto e attento alla cultura di destra e di sinistra – cita a memoria Guareschi, Pasolini, Marcuse, Di Vittorio e Leonardo Sciascia di cui è amico personale – conduce una vita opaca, ma coltiva ancora l’amore per il teatro e stringe una durevole amicizia con Paolo Grassi, il sovrintendente del Piccolo Teatro di Milano mentre la passione per la Juventus gli vale l’amicizia di Giampiero Boniperti all’epoca presidente dei bianconeri.
Insomma, Roma è bella, ha trovato moglie è diventato padre, ma è la carta stampata, l’odore del piombo che gli è rimasto nel sangue, dal quale non riesce a liberarsi, che lo rende inquieto. E quando gli è offerta l’opportunità di tornare alla Gazzetta quale direttore responsabile abbandona tutto e viene a Bari.
È il mese di febbraio del 1979 ed è uno dei periodi più cupi nella storia d’Italia. Pochi mesi prima le Brigate Rosse avevano ucciso Aldo Moro, il Paese era sotto l’assedio del terrorismo, la gente aveva paura e prese a rifugiarsi nel privato nutrendo un supremo disinteresse per i problemi politici e sociali, sembrava non avesse più ideali, ogni attesa, ogni promessa era invariabilmente delusa. Era il riflusso.
Quando Giacovazzo scrive l’Editoriale di presentazione ai suoi lettori, la classe politica locale, le cariatidi democristiane che cercavano di tenere in sonno chi già dormiva, avranno un sussulto: «avevo dodici anni in meno quando ci siamo lasciati. E sono cambiate molte cose. È cambiata la gente, è cambiata la società, la famiglia, la vita delle città; sono cambiati i partiti, la politica, il lavoro, la Chiesa. Anche i giornalisti sono cambiati. La gente sa che l’informazione è un diritto di tutti, i giornalisti sanno che informare è un dovere verso tutti! Il giornale non può essere un centro di potere tra i poteri costituiti, e neanche un contropotere. Deve essere contro il prepotere di chiunque, deve essere voce dei cittadini, specialmente dei più indifesi, voce della ragione che non teme anzi provoca il confronto, voce di chi non ha voce».
Insomma sembra una lingua nuova e qualche giorno dopo rincara la dose affermando: «un Paese che si organizza con metodi moralmente condannabili meriterebbe un po’ di più di una classe politica rissosa, inetta, inefficiente e ingorda. Signori un po’ di pudore». Poi però, nel rigo successivo, è già passato oltre. Sì perché la Democrazia Cristiana è come un’anziana mamma del nostro Mezzogiorno: incolta, un po’ ottusa, generosa dispensatrice di beni, ostinata nel conservare il proprio potere matriarcale e tuttavia abbastanza permissiva da consentire al suo acculturato e prediletto figlio qualche critica, un predicozzo, ma niente di più. La mamma è sempre la mamma, guai a contestarla, soprattutto se a farlo sono gli altri.
Per farla breve, se l’intento era di dare al lettore un’immagine nuova pur restando all’interno delle tradizioni culturali, sociali e politiche del giornale, Giacovazzo c’era riuscito. Quando, infine, gli vengono messe a disposizione cospicue risorse economiche egli chiama a collaborare alla Gazzetta alcune delle più prestigiose firme del giornalismo nazionale. Giacovazzo aveva compiuto il miracolo e la Gazzetta comincia a volare. Egli porta il giornale a livelli di diffusione mai raggiunti prima e mai più eguagliati dopo di lui. Non privo di carisma riesce a coinvolgere le maestranze per raggiungere un unico, comune obiettivo: rilanciare e portare al successo nazionale il più vecchio quotidiano meridionale.
Cordiale, sempre disponibile con tutti, discorre di politica e siede al tavolo degli operai come faceva con i suoi numerosi amici intellettuali. Egocentrico quanto basta, non cerca la scena. È un ottimo attore e lo sa. Perciò, se chiamato a salire sul palcoscenico, doveva essere lui a scegliere il teatro e la parte da recitare. Conversatore brillante, colto, grande senso dell’ironia – è stato lui ad introdurre le vignette di satira firmate da Nico Pillinini sulla Gazzetta – raramente si sottrae alle ‘battute’ dei tipografi in maggioranza di sinistra. Il Direttore subisce con eleganza ogni ‘sfottò’, tranne le battute velenose degli interisti sulla Juventus. Ma i tifosi dell’Inter non lo sanno. Nessuno sa che la Juventus è il suo tallone d’Achille e quando lo scoprono cominciano a punzecchiarlo. Una domenica sera, al pari di tutti gli altri giorni, scende in tipografia, un vasto salone di composizione e impaginazione, già di malumore: i Bianconeri hanno addirittura perso in casa e un giovane tipografo interista si concede una parola di troppo. La reazione verbale di Giacovazzo è violenta. Il tipografo sbiancò ma da quella sera ogni volta che la Juventus subiva qualche sciagura, il Direttore faceva a meno di farsi vedere in tipografia.
Intanto il giornale miete record e successi. Il suo segreto è una semplice antica formula di ‘misure’: la critica e la polemica con la DC fino all’aperto dissenso, erano dopotutto supportata da una fede incondizionata verso l’unico partito sinonimo di democrazia.
Giacovazzo sosteneva continuamente che non era la DC in discussione, ma le sue correnti, sinonimo di ‘potere’ e clientelismo. E, in un Paese sconvolto dal terrorismo, in una società smarrita e sfiduciata quasi priva di punti di riferimento, questa nuova, precisa, netta posizione politica conferisce al giornale autorevolezza e simpatie anche dall’opposizione. Sapere con chi e contro chi si cammina, non è poco.
Giacovazzo esprime certezze, la sua prosa è ‘a presa rapida’, come il cemento. I suoi editoriali, per il popolo democristiano un poco deluso, sono come ‘bolle papali’: non lasciano mai adito a dubbi. Ciononostante, egli è assai più critico, a volte perfino duro verso un Partito che non ha saputo proteggere e salvare il suo leader più rappresentativo. La scomparsa di Aldo Moro ha ‘liberato’ Giacovazzo dalla palude delle correnti. La DC del dopo Moro non è esattamente quella che lui vorrebbe. Perciò, quando questa le offre il destro, non le lesina bordate micidiali.
Poi, nel 1982, arriva Ciriaco De Mita che con Giacovazzo coltiva la ‘pazza idea’ di liberare la DC dalle correnti e… nasce un nuovo amore.
Intanto, nel 1979 si va a votare e Giacovazzo annota: «Ricordate cosa scrivevano certi giornali quando sparute bombe cominciavano a spuntare alla vigilia di elezioni? Dicevano che tutto faceva brodo elettorale alla DC, che le bombe servivano ad eccitare la paura dei moderati. Vedrete, dicevano, che appena la DC torna a vincere, le bombe taceranno. Quante sciocchezze sono uscite in questi anni dalla bocca e dalla penna di tanti irresponsabili… il terrorismo ormai non è un discorso che riguarda un partito. Riguarda il sistema. Gli ingenui potevano credere che il problema fosse quello di umiliare una forza politica… la via per battere il nemico della democrazia non è quella di spennacchiarsi come i capponi di Renzo. E’ invece la via dell’unione e della solidarietà. A patto però che tutti siano impegnati a debellare il pericolo che mina le fondamenta della nostra libertà. In questa campagna elettorale, Governo, partiti, istituzioni devono dimostrare ai cittadini che la democrazia non è una manica di bacchettoni incapaci di difenderci. Devono dimostrare che la democrazia non è sinonimo di rassegnata impotenza».
E subito dopo aggiunge sconsolato: «c’è in giro una certa indifferenza, la piazza non risponde come prima. La politica parlata fa meno effetto di ieri e nella psicologia di massa affiorano forme di rigetto… che derivano dalla paura diffusa, dalla violenza politica e criminale nelle piccole e grandi città… non faremo quindi profezie, i sondaggi demoscopici servono ad alimentare chiacchiere da caffè».
I risultati elettorali non cambiano nulla. Il riflusso persiste. C’è addirittura un’involuzione, ed il merito di Giacovazzo sta proprio in questo: fare in modo che nessuno se ne accorga! Ma quando guarda nelle vicinanze di casa sua, la Regione Puglia ha messo in piedi una pletorica commissione di esperti in designers per partorire lo stemma regionale, sbotta: «la lottizzazione politica è una sciagura nazionale, quella culturale è anche più aberrante. Ma la sua traduzione in provincia è addirittura squallida».
La spartizione del potere è una realtà che Giacovazzo non ignora e tuttavia non può fare a meno d’indignarsi quando la misura supera la decenza «ieri alla Regione – scrive l’11 ottobre – si volevano tener fuori dalla Giunta i socialdemocratici. Oggi alla Provincia si vuol fare altrettanto con i repubblicani. Democristiani e socialisti sono liberi di farlo, a patto che ne diano una spiegazione decente. Invece il discorso è semplicemente brutale: nessuno vuol cedere un posto d’assessore. Punto e basta, nemmeno l’ombra di una ragione politica. Accade solo da noi: alcuni partiti si dividono i posti prim’ancora di decidere con quale formula governare. Quando la torta è divisa, con viva sorpresa, gridano a distesa: toh, c’è rimasto fuori qualcuno, che peccato!»
Il 3 marzo 1980 il commerciante Massimo Cruciani e l’oste Alvaro Trinca, entrambi romani, fanno saltare il coperchio da una pentola che bolle da vari giorni: il calcio scommesse. Anche qui, tutto da manuale: Cruciani e Trinca investivano grosse cifre, nel mercato del calcio clandestino, su un singolo incontro di calcio. Poi avvicinavano calciatori corrotti e, a suon di milioni, si assicuravano il risultato. Per un po’, il sistema ha funzionò, poi pare che qualche calciatore fosse venuto meno all’impegno e, Trinca e Cruciani decisero di vuotare il sacco.
«Ci sono truffe e truffe – commenta Giacovazzo – ci sono truffe tra gente del mestiere. Truffe da padrone a cliente, da mercante a compratore e viceversa… ma la truffa calcistica delle scommesse è più truffaldina, non solo perché in una botta si beffa di una moltitudine, ma perché la gente che affolla gli stadi si trova colà spinta da passione, non da lucro. Spinta da qualcosa che molti, ingenuamente, vivono come un surrogato di patriottismo. Perciò il calciatore venduto è un disertore passato al nemico. Roba da tribunale del popolo, Dio ce ne liberi».
Neppure una settimana dopo il Direttore va in crisi. Gira voce che anche la ‘vecchia signora’ è implicata nel calcio scommesse. Per Giacovazzo è come se gli avessero conficcato una spina nel cuore. Per due penosissimi mesi, l’Italia calcistica si divide fra innocentisti e colpevolisti, quando alla fine la verità viene fuori e la Juventus è scagionata il Direttore si commuove: «cara Juve, dunque è vero che non sei come i cattivi hanno cercato di dipingerti? Volevano farci credere ad ogni costo che anche la vecchia signora fosse sul viale dei bassifondi. Volevano cancellarci dalla memoria quel magico momento infantile quando ci apparisti la prima volta fulgente appo la torre di Maratona. Invece, non solo sei bella, brava, favolosa: o cielo misericordioso, sei anche onesta e virtuosa. Avremo un bel campionato cadetto – dicevano i maligni – con la Juve e il Milan al piano di sotto. Ora sono serviti. Grazie, Juve, per aver salvato il grande giocattolo. Senza di te, il diluvio».
Non c’è nulla che unisce Giuseppe Giacovazzo a Michel Platinì e alla Juve se non la ‘passione’ per la Vecchia Signora. Ma coincidenza vuole che una settimana dopo l’uscita di scena del campione d’Oltralpe, anche Giacovazzo lascia quella squadra dove per otto anni ha svolto il ruolo di centravanti, rifinitore e regista conseguendo un successo qualitativo e diffusionale… «che non hanno riscontro nella storia intera della Gazzetta del Mezzogiorno». Niente di traumatico, nessun divorzio annunciato. È accaduto che la segreteria nazionale della DC ha fatto a Giacovazzo la classica offerta che non poteva rifiutare: lo ha candidato al ‘sicurissimo’ collegio senatoriale di Tricase ed è eletto senatore della Repubblica.
Le dimissioni di Giacovazzo vengono accolte come una ‘liberazione’ dalla DC regionale: una voce ‘fuori dal coro’ in meno all’interno della stampa amica. «Perché ho saltato il fosso? Perché questa scelta di campo? Per curiosità e per capire – scrive Giacovazzo nel suo editoriale di commiato dai lettori il 17 maggio 1987 – per capire dall’interno la politica e il lavoro politico. Capire come si fa a risolvere qualcuno dei tanti problemi nostri, del nostro Sud, dopo aver tante volte fustigato – ahimè con quanta presunzione – la classe degli addetti ai lavori».
Ma dovrà incassare cocenti delusioni tanto da interrompere il suo rapporto di collaborazione con la Gazzetta. E quando qualche tempo dopo Giuseppe Gorjux, subentratogli alla guida del giornale, gli chiede perché ha smesso di scrivere il suo settimanale commento politico, Giacovazzo risponde: «Vorrei poterti spiegare cosa può accadere ad un giornalista che avendo messo piede in politica ha creduto di poter continuare a fare il suo vecchio mestiere. Fino a qualche tempo fa non mi rendevo conto di quanto stesse accadendo nel nostro Paese. Ora forse comincio a capirci. Leggo negli sguardi della gente comune, quella che si incontra per strada. Non sono sguardi benevoli verso i politici… e la gente ha il diritto di pensare: a che servono le mani pulite se il sistema è pressoché marcio?»
Poi però torna a scrivere, ma è sempre più deluso per le ricorrenti crisi di governo, le promesse mai mantenute, le riforme mai fatte e il continuo degrado morale della politica. E quando si annuncia l’ennesimo nuovo governo, il Cossiga bis, il Senatore scrive: «non basta che ministri e sottosegretari siano persone oneste. Occorre che siano capaci di combattere fermamente la disonestà e siano capaci di eliminare i disonesti». Accade invece il contrario, tanto che qualche anno dopo esplode Tangentopoli.
Negli ultimi anni Giacovazzo, pur frequentando diversi corridoi politici, evitava di assumere cariche politiche. Preferiva far parte di qualche commissione culturale. Curava una collana per l’editore Palomar e nella sua amata Locorotondo aveva fondato un mensile, Paese Mio, cui dedicava gran parte del suo tempo aiutato e allo stesso tempo formando giovani desiderosi di avviarsi al giornalismo.