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Con questo titolo, e una breve nota introduttiva, il Sotsijalistíčeskij Vjéstnik [Notiziario Socialista] di New York presentava ai suoi lettori (1946, 27 dicembre, n.12, pp.275-278) il drammatico e appassionato appello, che l’ex internato nei Gulag staliniani Julij Boríssovič Margolin, scrittore, filosofo e pubblicista ebreo polacco, aveva freneticamente redatto nel settembre del 1946, mentre era ancora sulla nave che da Marsiglia lo portava nella terra dei suoi padri, in Palestina.
L’articolo fa parte di un’antologia, curata dallo slavista Augusto Fonseca e di prossima pubblicazione, comprendente scritti testimoniali sulla realtà concentrazionaria nell’Unione Sovietica, ma anche rappresentanti chiare denunce della voluta ignoranza dell’Occidente e dell’ignavia della classe politica di Israele nei confronti delle centinaia di migliaia di Ebrei deportati e rinchiusi nei Gulag. La voce forte di quest’uomo, che non si è mai stancato di promuovere iniziative e presentarsi a testimoniare ovunque si presentasse l’occasione (nel febbraio 1950, tra l’altro, anche al Consiglio Economico e Sociale dell’ONU) al fine di far conoscere al mondo la verità dei e nei Gulag (e questo molto prima che lo facesse Solženitsyn), è rimasta, purtroppo, quello di uno clamantis in deserto…
Il caso Berger, che ora ci propone nella sua traduzione Augusto Fonseca, sarà il secondo scritto con cui questo sito presenta al lettore italiano Julij Boríssovič Margolin.
« Questa “Lettera aperta” del dottor Julij Margolin, diffusa nell’originale russo tra amici comuni, è stata pubblicata per intero in lingua ebraica sulla rivista newyorkese Forverts. Ospitiamo questo documento ricco di umanità e profonda emozione, che dobbiamo alla penna di un operatore sociale inappuntabile e progressista, ben noto nelle grandi sfere dell’ebraismo polacco di prima della guerra, non soltanto per l’importanza delle informazioni che offre Margolin e che, provenendo da fonte assolutamente a noi estranea, conferma appieno le nostre conoscenze, ma anche in considerazione del valore politico di questo coraggioso appello alle coscienze ».
Tra l’autunno 1939 e l’estate 1946 io ho vissuto in Unione Sovietica per quasi sette anni.
Di questi, il primo nel territorio della Polonia occupata. E là fui testimone del processo di sovietizzazione del Paese assoggettato. Ho visto come si fa un “plebiscito”, come si inducono gli abitanti all’“entusiasmo” e al “patriottismo sovietico”.
Nei cinque anni successivi sono stato ai lavori forzati nei cosiddetti “campi di lavoro correttivo”. È stato lí che ho scoperto il segreto della stabilità e della forza di quel sistema.
L’ultimo anno, poi, ormai libero e con tutti i diritti-doveri di un cittadino sovietico, sono stato in un paesino dell’Altaj dove ho condiviso le condizioni di lavoro nella monotona vita quotidiana della gente.
Ritengo di aver il diritto di parlare ed esprimere giudizi su quel Paese. Tolstoj ha detto che “nessuno può conoscere la realtà di uno Stato, se non ha conosciuto le sue galere”. Questo giudizio di un anarchico è, comunque, corretto in ordine all’Unione Sovietica.
Fino all’autunno del ’39 la mia posizione nei confronti dell’Urss era di “neutralità beneaugurante”. Questo era, peraltro, l’atteggiamento dell’intellighenzia europea progressista e radicale.
“Certo”, ti dici, “una cosa del genere in Europa non è proprio il meglio. Tuttavia, si tratta di un sistema che evidentemente risponde alle aspirazioni dei cittadini russi. Fatti loro, è una loro libera scelta. Per noi europei ha il valore di un grande esperimento sociale dal quale avremo tutti da imparare molte cose di grande utilità e importanza; come, per esempio, la soluzione del problema nazionale, la pianificazione economica, la nuova immagine della donna… Che vadano avanti nella loro vita, con il loro lavoro in santa pace. E auguriamo loro buona fortuna!”.
Tale era, dunque, il mio atteggiamento fino al 1939. Ma leggendo la stampa degli emigrati russi non riuscivo ad allontanare un certo disagio e ringraziavo il cielo di essere esente da limitatezza di vedute e da sottili distinguo, per cui potevo avere nei confronti della realtà sovietica un approccio doverosamente oggettivo. I duri attacchi antisovietici, “reazionari”, mi disgustavano. Nel mio libro “L’idea di sionismo”, uscito prima della guerra, non compare la minima traccia di ostilità nei confronti dell’Unione Sovietica.
Ma neanche gli anni trascorsi in mille sofferenze hanno avuto alcuna influenza sull’obiettività del mio pensiero. Io cesserei di essere me stesso, qualora perdessi la capacità di analizzare i fatti in modo sereno e nella loro completezza, considerando tutti i pro e i contro. È inutile che mi si parli dei risultati e dei meriti dell’Unione Sovietica. Io so bene tutto quello che si può dire a suo favore.
I sette anni trascorsi in quel Paese hanno fatto di me un nemico, profondamente convinto, del sistema sovietico. Io lo odio con tutta la passione del mio cuore e la forza del mio pensiero. Tutto quello che io là ho visto mi ha pervaso di terrore e ripugnanza per tutta la vita. Chi è stato là ed ha visto quello che visto io, non ha difficoltà a comprendermi. Ritengo che lottare contro quel regime terroristico, schiavistico e disumano sia il compito principale di ogni persona onesta in questo mondo. Che una simile vergogna di portata mondiale venga tollerata o sostenuta da una parte della gente che si trova al di fuori dei confini sovietici, in condizioni normali in Europa, è assolutamente inaccettabile. Ed io sono felice di trovarmi in condizioni di poter dire, apertamente e senza alcun timore, tutto quello che so e penso di quel regime.
Sto scrivendo queste righe sul ponte di una nave che mi sta riconducendo ai patri lidi. Il mio ritorno alla vita è un miracolo, una vera e propria resurrezione dai morti. Che cosa può pensare una persona che esce fuori dalla tomba, dall’inferno? L’azzurro del Mediterraneo e lo splendore del sole mi fanno andare in visibilio, colmandomi di un benessere indescrivibile. Bisognerebbe concentrarsi, tornare indietro coi pensieri e provare a raccontare il passato in modo serio e sistematico. Ma un tale compito richiederebbe parecchio tempo. Per mettere insieme in un tutt’uno e dar forma alle esperienze di quel passato sono necessari lunghi anni. Ma il tempo non aspetta. Vi sono cose che vanno comunicate immediatamente, senza perdere neanche un istante. E io non posso permettermi di rimandarle, non posso arrischiarmi: sarebbe un crimine contro chi, per mio tramite, lancia strazianti grida di disperazione.
Mi rendo conto di avere forze impari per un simile compito. Per scrivere dell’inferno sovietico sarebbero necessarie le energie di Dante e Dostojevskij messe insieme, integrate dal realismo di un Dickens. Ma il destino ha messo nelle mie mani una penna e, per questo, io non intendo posarla fin quando non avrò esaurito tutto quello che ho da dire. Non ho ambizioni letterarie. Mio compito è raccontare la verità che tanta gente non osa dire, non vuole, non sa o semplicemente ha paura di dire. E io lo farò con la disposizione di colui al quale resta un solo giorno di vita e in quel giorno deve riuscire a dire solo l’essenziale, l’improcrastinabile; il piú presto possibile, perché domani potrebbe essere già tardi.