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Esce il 10 aprile il nuovo album dei Counting Crows, si intitola Underwater Sunshine (or what we did on our summer vacation) e rappresenta la genuina reinterpretazione di Adam Duritz e compagni di brani scritti da artisti mainstream e da band indipendenti. Un progetto coraggioso, scaturito dal puro piacere di suonare. Un tributo rivelatore che scova file dallo sterminato archivio musicale disponibile oggi. Un disco che vuole discernere valide novità e mettere in luce ciò che di buono è stato tralasciato.
Noti ai più per il debut album August and Everything After, già nel ’93 i Counting Crows catalizzavano l’attenzione della scena raggiungendo vette qualitative (e riscontri commerciali) inaccessibili per migliaia di esordienti. Le tappe successive esibivano, sia pure tra alterne fortune, un sound peculiare ma ancorato ai cardini poetici di Dylan, al classic rock di Springsteen e allo spleen alternativo dei Rem. Oggi, a vent’anni da quel sublime inizio, la celebrità pare rappresentare solo un ammennicolo per una band che non disdegna l’idea di incidere un album di sole cover. Una sorta di ritorno all’epoca in cui ogni principiante smania per suonare; un recupero della fase nella quale prima di creare musica, l’urgenza è fare musica. Per compiere l’impresa, il combo mescola canzoni attuali con una manciata di brani prodotti tra il ’68 e il ’74, in un percorso controcorrente che sfida la logica e se ne frega dei rischi: i Counting Crows – nientemeno approdati nel roster di un’etichetta discografica indipendente – sembrano manifestare interesse nel riconquistare una sorta di innocenza perduta.
Tra le quindici perle di Underwater Sunshine, ci sono soprattutto brani di gruppi nuovi o misconosciuti, una parte del rock Stars and Stripes e una ammantata dalla Union Jack. Una scelta audace che vede le giovani leve Coby Brown, Kasey Anderson & The Honkies, Dawes e Romany Rye accanto agli illustri nomi di Bob Dylan, Gram Parsons, Faces e Fairport Convention.
L’attacco è firmato dai sorprendenti Romany Rye, autori di quella Untitled (Love Song) perfetta per seminare suoni – abrasi da chitarre elettriche, invasi da curve sinuose di Hammond e corrotti dalle tonalità bluesy di Duritz – che germogliano lungo un’ora di ottima musica.
I Counting Crows prediligono le atmosfere rilassate eppure decise, le inquietudini country e la malinconia folk, ma non avversano l’intermittenza nervosa di Hospital e il magnetismo riflessivo di Like teenage gravity, incessante container di tensione sprigionata in un finale impetuoso e risolutivo. L’esatto contrario del pacato folk di Meet on the Ledge e del bluegrass di Amie (con tanto di banjo e fisarmonica). Capitolo a parte merita il doppio omaggio rivolto ai Tender Mercies, che condividono con i Crows il batterista Jim Boglos e il chitarrista Dan Vickrey: Mercy (in free download su http://www.countingcrows.com/) è anteprima che annuncia il mood dell’album e fa coppia con Four white stallions, già apparsa in due precedenti dischi live. Da ascoltare a tutto volume la scintillante versione di You ain’t going nowhere, in pieno stile Band, sentito omaggio al complesso musicale che ha sancito i principi della cosiddetta “Americana”.
L’estrema libertà di fare propri i pezzi altrui, scritti persino da emergenti, dimostra spontaneità e trasporto per la buona musica. Un back to basic purificatore che consente alla band di ripartire in tour, in quella dimensione live a loro così consona.
Duritz aspira a farci apprezzare alcune tra le tante canzoni che suonano per pochi e che, a suo dire, potrebbero creare emozioni in molti. Una nobile missione, pienamente compiuta con l’antologia rock di Underwater Sunshine (or what we did on our summer vacation).