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Si fa chiamare Blacco, è italiano. Dipinge su vecchi dischi d’epoca con lo stile del graffitaro. Sull’esemplare più venduto (20 euro) ha scritto ‘we stay‘. Blacco è leccese, ed è uno dei resistenti di Tacheles, la casa di 9000 metri quadrati occupata a Berlino negli anni ’90 da un gruppo di artisti che ne face una galleria di richiamo internazionale. In questi giorni a Tacheles è stato sferrato l’assedio finale: per la prima volta l’edificio, acquisito da una banca nel 2008, è chiuso al pubblico. Da due giorni.
Asserragliati dentro restano pochi artisti, per qualcuno una quindicina, per qualcun altro si contano sulle dita di una mano. Gli altri sono fuori, a protestare. Ballano, bevono, fumano, e alcuni vendono anche sul marciapiede di Oranienburger Strasse, per non perdere la giornata. C’è chi dice che non è più il Tacheles di una volta. Ad ogni modo, una visita oggi, davanti ai sigilli mette malinconia: sembra di assistere agli ultimi respiri di una delle «creature» simbolo della città riunificata.
Un palazzo del primo ‘900 – nato per un grande magazzino dell’epoca – oggi coloratissimo e dall’aspetto vecchio, andato, che sembra però quasi un essere vivente. Dove ogni pietra parla di centinaia di nomadi, che hanno trovato uno spazio (in cambio di pochi euro dati al collettivo di Tacheles) e un marchio per la loro ispirazione. Dove su 5 piani si sono arrampicati per 20 anni gli atelier berlinesi. Un luogo anarchico, che investiva i passanti col pesante odore del fumo e dei litri di birra che vi si consumavano all’interno.
«Mi hanno offerto ventimila euro per andare via, l’anno scorso. E ho rifiutato», racconta Blacco. «Non è chiaro chi sta investendo davvero su questo progetto e vuole la fine di Tacheles. Ma è gente potente, che ha in mano la polizia, che compra gli artisti senza badare a spese. Noi qui abbiamo a che fare sempre solo con l’avvocato Schulz, un professionista degli sgomberi».
Blacco vive della sua arte multifunzionale: «Sono qui da quattro anni. Ho studiato alla Accademia delle Belle arti di Lecce ne sono uscito con 110 e lode. E poi mi sono messo a viaggiare, fino a quando sono arrivato a Tacheles». «Questo posto è la realizzazione di un’utopia – dice -: quella di poter vivere solo della propria arte. Perciò non può chiudere. Perciò non dobbiamo mollare, come hanno fatto quelli che si sono fatti comprare. Cedendo ai soldi hanno indebolito l’intero progetto. Io voglio vendere un quadro a diecimila euro, non la mia idea di vita».
Ieri è arrivata a Tacheles la Security e ha chiuso l’edificio. Cancelli e porte sbarrate. Solo il saloon d’ingresso resta occupato, con un piano a coda, a disposizione dei passanti, e di chi lo suona senza curarsi del baccano della musica che viene dalla strada. Resistenza pacifica, a pochi passi dalla sinagoga, in uno dei quartieri un tempo fra i più alternativi di Berlino, oggi divorato dai ristoranti asiatici. Tacheles era l’ultimo respiro di Oranienburg.
Alejandro, della Patagonia, da due anni esponeva al piano terra le sue sculture di metallo. «Alla fine ci faranno restare», dice in spagnolo. Udo si è vestito da Charlie Chaplin ed è seduto su una valigia di pelle: «Chaplin ispirava simpatia, ed è quello che vogliamo trasmettere noi a Tacheles».
Ma se fosse davvero finita? «Tacheles – spiega Blacco – è la madre delle case d’arte d’Europa. L’idea non muore. Ci sposteremo». Alla fine a perderci sarà Berlino. «Io l’ho detto una volta al Comune, invece di cacciarci, ci dovrebbero pagare, per restare».