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Che epoca ci racconta il nuovo disco dei Muffx? La copertina del loro imminente ultimo lavoro, appunto Époque, sembra suggerire una lettura critica e disincantata dei giorni nostri. Un omone incravattato (che svela la sua reale natura solo sul retro di copertina) è posto al vertice di una stilizzata mappa dei poteri che colloca in alto omuncoli della classe dirigente, clericali, starlet e delinquenti: insomma quelli che influenzano negativamente il quotidiano. Solo alla base di questa piramide sociale si ritrovano personaggi più ordinari e tangibili: una giovane coppia, alcuni anziani, gente di modesta estrazione. Sembra proprio che i Muffx vogliano denunciare le ragioni di una stagione difficile, figlia di un’economia dominatrice delle relazioni (raffigurata con un’enorme moneta che torreggia alle spalle del demone incravattato), indifferente verso aspetti ben più profondi, umani della “vita reale”. Una sensazione visiva confermata anche dalla parte musicale e, forse più parzialmente, dai testi che esplorano le viscere della comunità. Per farlo, il quartetto salentino si rifugia nel terreno dello stoner rock, giocando con chitarre abrasive che lasciano il campo ad intermezzi più consoni alla terra natìa. Prega, uno dei migliori pezzi del disco, accosta ad un vivace rock barocco un finale da musica popolare che trascende il testo e s’infila sottopelle per raccontare vicende di santi e peccatori. Luigi Bruno (voce, chitarra), Alberto Ria (batteria), Gianna Greco (basso) e Cristiano Colopi (chitarra) tratteggiano i contorni di un progetto che si autodenuncia con l’apertura di Dopotutto, brano energico e spigoloso.
La title track, époque, riluce con timbri diversi che si combinano per farsi incisivi, soprattutto grazie all’apporto della sezione fiati. Ma la sperimentazione è continua per i 43 minuti dell’album. Sagra del diavolo, pt. I e pt. II, è progressive che prevede variazioni efficaci e pregevoli inserti di hammond (nella seconda parte) ad opera di Mauro Tre.
Epoque è il punto di vista, vergato da Bruno e dallo scrittore Stefano Zuccalà, di chi vive in provincia e ancora ha il privilegio di poter osservare il mondo da un angolo, lì dove è più facile meravigliarsi dell’umana ottusità o stupirsi per le occasioni prospettate dalla sorte.