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Quando si parla di delitto e castigo, ci si chiede sempre, a un certo punto, se non sia giunto il momento di voltare pagina, di liberare il colpevole dalla pena e dalla stessa ossessione del rimorso. L’inferno, la punizione eterna, appare inaccettabile anche rispetto ai delitti piu’ orribili e la coscienza umanitaria pensa che il reo, dopo aver scontato severamente la pena, possa ricominciare a vivere, senza essere incatenato e bloccato dal fantasma del male commesso.
Anche quando si parla di deportazioni, di Unione Sovietica, di Auschwitz affiora inevitabile, prima o poi, una simile domanda. Ma la storia integra a poco a poco l’abominevole sterminio, l’imperativo "bisogna continuare a vivere" accomoda gli animi e smussa ciò che è accaduto, una coltre di normalità ricopre l’intero paesaggio delle coscienze e ogni senso reale di colpa, individuale o collettiva, svanisce. La vera colpa collettiva, per il mondo, sembra pesare, paradossalmente, sulle vittime: colpa di ricordare una insostenibile enormità del male che tutti vogliono accantonare; colpa di vivere quale male assoluto qualcosa che agli altri appare orribile, ma superabile; colpa di interiorizzare il totale rifiuto e la totale condanna subita dagli altri che lo hanno ridotto a niente; colpa di essere inesorabilmente condizionato da quella esperienza e dalla sua perpetuazione nel ricordo e nel pensiero.
La storia ha costretto le vittime ad accettare consapevolmente il loro destino, a vivere senza identità, senza passato e senza patria, senza la quale ultima non c’è personalità completa e senza la quale queste sono, tuttavia, costrette a vivere.
Lo straordinario libro di Aurelia Raszkiewicz, “Piste di lacrime” (Zane Editrice), presentato il prossimo 3 febbraio, presso l’ex convento dei Teatini di Lecce, arricchisce, con la sua testimonianza sui campi di concentramento “rosso-sovietici”, la “Collana Slavica”, ed e’ e vuole essere un accorato appello al ricordo, lucido nella consapevolezza della disfatta dello spirito nei campi di concentramento. Appena undicenne, deportata dalla natia Pinsk in Polonia, insieme con i suoi tre fratellini più piccoli e i nonni, fin nella glaciale Siberia, Aurelia perde d’un colpo la sua infanzia e con essa la sua famiglia, la sua casa, la sua patria. E conosce l’esilio.
Quanto e’ necessaria la patria per l’uomo? Questo il più ossessivo tra gli interrogativi che sin dal primo giorno assillano l’esiliato, per non lasciarlo piu’. L’uomo ha tanto piu’ bisogno di patria quanto meno puo’ portarne via con se’. Esiste, infatti, qualcosa come una patria mobile, un surrogato della patria stessa. Puo’ essere la religione, la lingua, il denaro. Perche’ lingua madre e ambiente patrio crescono insieme a noi, crescono in noi e si trasformano in quella confidenza che diventa sicurezza. Perche’ la patria la conosciamo, la riconosciamo e ci fidiamo a parlare, a muoverci, ad agire. Se non si ha una patria, allora, si è vittima della mancanza di ordine, di turbamenti, di dispersione. E in “Piste di lacrime” c’è l’autrice che racconta, con la sua straordinaria capacità di tenere sempre viva l’attenzione del lettore e la sua spiccata anima ‘poetica’, i tormenti, le sofferenze, lo smarrimento dei suoi lunghi sei anni lontano da casa; c’è il ritorno continuo alla vita di prima, alla casa di Pinsk; c’è l’incessante ritorno della memoria, nei confronti di chi condivise quell’esperienza; c’è la testardaggine e la speranza mai persa di voler tornare a casa e il racconto di come quel ritorno sia stato possibile; ci sono i fatti che scorrono cronologicamente fino al riscatto finale: la vita che ricomincia in una patria profondamente cambiata. Una narrazione commovente, intensa, lirica, con una scrittura semplice e scorrevole che conduce il lettore tra le costrizioni, gli orrori, le terribili vicissitudini delle deportazioni, ma che è anche una guida in terre lontane, tra genti confinate in spazi sterminati con i loro usi e costumi antichi, tra episodi segnati da amore fraterno e solidarietà. Perchè, a dispetto del crudele destino, le vicende raccontate dalla donna matura non hanno perso l’emotività, l’energia, la semplicità fanciullesca e l’attaccamento alla vita della piccola undicenne.
Un particolare merito va ad Augusto Fonseca, lunga esperienza di lettore presso l’universita’ dei Paesi Slavi, Italianista e slavista poliglotta, fondatore della Collana Slavica, che ha tradotto il libro in italiano, mantenendo intatta la commovente narrazione che si dispiega fluida, pagina dopo pagina, davanti al lettore.
E un doveroso augurio, infine, all’autrice: che questo libro scuota le coscienze di tutti. Ma, soprattutto, che tocchi gli animi delle generazioni future, giovani e meno giovani, a cui è richiesto ricordare.