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Chi segue le lezioni del Corso di Fotografia, organizzate da Pio Meledandri al Politecnico di Bari, già lo sa: il Prof. Carlo Garzia ha una mente molto elastica. Mentre parla un po’ insegna, abitudine di chi insegnante lo è stato davvero, si entusiasma, si addentra in mille temi, ricorda e racconta. Fa venire in mente quegli screen sever animati di figure geometriche che si allungano, restringono e spostano senza soluzione di continuità, è così il suo pensiero costantemente in movimento. Riuscire a star dietro ad un oratore capace di tener banco per ore a volte può risultare complicato ma ascoltare è più utile che parlare in molti casi, e questo è uno di quelli, sempre che spirito e mente siano predisposti a lasciar entrare un gran numero di informazioni, considerazioni e nozioni da far poi elaborare alla nostra coscienza critica. In caso contrario meglio desistere, la tv sarà un buon anestetico.
Potrebbe definirci quali sono i parametri che differenziano un fotografo professionista da un non professionista?
Il problema è questo: da un lato c’è chi il mestiere di fotografo lo esercita ed è iscritto alla camera di commercio e paga le tasse però ha per lo più un mercato pubblicitario, e in Italia l’unica area in cui un fotografo guadagna molto è la moda, che a Bari si limita all’industria di abiti da sposa. E poi in una scissione un po’ schizzoide, soprattutto dalle nostre parti, quel fronte da cui viene espresso il meglio della fotografia, cosa stabilibile dalle esposizioni internazionali all’attivo, ma che spesso di fotografia non vive. Lo stesso Luigi Ghirri, che ha avuto diverse difficoltà fin quando non è diventato più conosciuto, ha fatto lavori fotografici su navi da crociera per riviste del tipo “Abitare”.
Inoltre si pone anche un problema di carattere semantico. In Italia questa parola non esiste, ci sono stati vari tentativi da artista-fotografo a fotografo-artista. L’attuale compromesso è parlare di un autore-fotografo, dunque autori e non solo fotografi.
In America le condizioni sono del tutto differenti per un fotografo che non vuole fare i matrimoni, non vuole fare la pubblicità ed ha raggiunto un discreto successo. Ha due buone possibilità. Le gallerie di riferimento che perfettamente inserite nelle aste riescono a vendere le foto proposte, ovviamente numerate e scattate secondo criteri galleristi. E lo potrà fare anche vendendo al di sotto delle proprie quotazioni senza che questo desti nessuno scalpore come invece accadrebbe in Italia. L’altro sbocco è l’insegnamento a livello universitario. Ogni università nel suo dipartimento di “Fine Art” ha una importante cattedra di fotografia. Per non parlare poi di istituti particolari come l’ICP (International Center of Photography) di New York. In Italia questo non esiste, le accademie insegnano per lo più la tecnica, e il mercato va a risparmio e se deve chiamare qualcuno chiama Richard Evedon perché è un valore aggiunto alla merce. Insomma una foto di Versace fatta da Avedon o Helmut Newton sono di per se un marchio.
Quindi in definitiva il fotografo professionista chi è? Chi vive di fotografia o chi produce fotografia di qualità?
Si può dire che in fondo questo sia un falso problema. Tecnicamente professionista lo è chi è iscritto all’albo e alla camera di commercio, ad un livello più ampio chi produce una fotografia di qualità, ma che quasi mai vive di questo. Ed infatti i fotografi più conosciuti del nostro territorio vengono da realtà lavorative differenti. Io stesso vengo dall’insegnamento, ma anche Gianni Zanni ed altri. E che in parte proseguono insegnando in istituti con affinità alla fotografia in quanto non esistono insegnamenti universitari. Il corso del Politecnico un’eccezione.
Nemmeno l’Accademia di Belle Arti ha una cattedra o un intero curriculum di fotografia?
L’ l’Accademia di Belle Arti, e vale per tutta l’Italia, si preoccupa troppo di dare insegnamenti tecnici su come si fa una foto ad un dipinto, ad una scultura o ad una architettura.
Alla sua nascita la fondazione “Spazio Immagine” quali obiettivi si poneva?
Nella storia della fotografia barese ci sono stati personaggi anche illustri come professionisti vecchia maniera, ad esempio G. Mastrorilli, che però sul piano iconografico proponevano una Puglia non solo retorica ma anche inesistente. Una Puglia di cieli sempre azzurri e di trulli imbiancati. Da qui l’esigenza di “Spazio Immagine”, di cui io e G. Leone siamo stati gli animatori principali ma non i soli, di rompere con questa tradizione iconografica inserendoci direttamente in correnti di linguaggio internazionali. Mutuammo le idee di una corrente fotografica americana, la “new topogrphics”, adattandole alla storia e allo spazio della Puglia, isolando alcuni moduli anche “ironicamente” per ottenere un senso di spiazzamento. Come per la scuola americana l’immagine doveva essere onesta, diretta. La differenza con gli americani invece è il formato, loro prediligevano quelli molto grandi dal 9×12 al 20×25. Questo da un lato è un’esigenza di mercato, dall’altro di una necessità di “tutto a fuoco”.
Tornando alle origini della fotografia, si potrebbe dire che l’arte fotografica sia anche il frutto di già ben consolidate tecniche pittoriche e di disegno?
La fotografia esisteva ancor prima che esistesse la macchina fotografica. Era un modello di visione. Io stesso nelle lezioni dell’anno scorso ho parlato delle camere ottiche che Canaletto (settecento) usava per realizzare i suoi dipinti. In pratica una macchina fotografica senza pellicola. Ma si può risalire a tempi ancor più antichi senza difficoltà. Nel film “I misteri del giardino di Compton House”, di Peter Greenaway, il regista immagina un pittore a cui vengono commissionate una serie di vedute del giardino, e si può ben vedere che per farlo utilizza una tecnica che si avvale di una serie di strumenti equiparabili a quelli fotografici.
L’arte fotografica in quanto tale non è stata da subito ben accolta. Anche a causa della sua riproducibilità che fa di fatto perdere il concetto di unicum tanto caro all’Arte. Perché ha incontrato tale ostilità?
Beh anche una Merilyn o un Mao di Andy Warhol erano riproducibili. Io direi che questo è un falso problema. Originariamente si creò un senso di disprezzo da parte dei dandy raffinati e tormentati, come Charles Baudelaire, poiché temevano che qualunque fotoamatore medio si sarebbe trasformato in artista; per essere più diretti “la fotografia farà di ogni imbecille un artista”, o meglio non lo farà ma lui si sentirà autorizzato a sentirsi tale. E Baudelaire non sapeva cosa sarebbe accaduto con l’invenzione dei cellulari! Anche un altro grande personaggio come Eugène Delacroix ha disprezzato la fotografia, il quale però si avvaleva di immagini fotografiche, di alcun valore in quanto tali, per i suoi dipinti prendendo a prestito volti e corpi in sostituzione di un modello. Questa pratica scomparse con autori come Man Ray, e nelle avanguardie in cui tra l’altro si produceva un immagine non necessariamente con un referente ma anche usando oggetti di uso comune come soggetti. Basti pensare a quella che poi è stata la produzione dadaista. Di contro anche agli inizi ci furono persone che apprezzarono la fotografia, venivano per lo più dal mondo della fisica, della chimica, dell’antropologia e dell’archeologia.
Certo bisogna dire che comunque la fotografia rimane un’arte considerata meccanica. Walter Benjamin nel suo libro “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica” affronta questo problema della serialità. Egli essendo di origine ebraica non praticante e di fede marxista, vede in questo una certa forma di democrazia. Cosa condivisa da Andrè Breton e Louis Aragon, secondo cui la macchina fotografica è democratica perché permette a tutti di esprimere una visione personale del mondo, quindi la propria visione “critica”. Nell’intenzione di Benjamin non c’è l’idea di creare un esercito di pseudo artisti, ma di creare uno strumento che eliminasse dall’altre la sua famosa aura, cosa che intellettuali ed artisti dell’epoca non approvavano. Storicamente però, a causa, di interessi industriali la fotografia è andata in tutt’altra direzione, si è democratizzata ma nel senso del banale, del piatto del quotidiano.
Cosa ha guadagnato e cosa ha perso la fotografia con l’avvento del digitale?
Questo è un argomento molto delicato, infatti anche saggi critici a riguardo non danno definizioni. Ed anche gli stessi critici, le stesse “istituzioni” e lo stesso mercato non forniscono vere e proprie indicazioni. L’elaborazione critica si può dire si ancora in corso. Tutti hanno però capito fin dall’inizio la rivoluzione che avrebbe apportato il digitale, ma nessuno aveva previsto che la situazione si sarebbe evoluta in maniera così veloce. Ormai ci sono compatte da 20 megapixel, anche se poi questo non è tutto. Il problema allora è da affrontare la punto di vista galleristico: proporre una foto digitale ed una non digitale vuol dire avere valutazioni differenti. Anche se a New York, alla galleria Silverstain, ho visto diverse foto digitali ed allora potremmo circoscrivere la questione al deterioramento delle immagini prodotte con questo metodo. Una foto deve avere una certa durata come sua garanzia, sarebbe impensabile acquistare un’immagine a cifre anche elevate e poi vederla deteriorarsi nel giro di pochi anni.
Ma parlando di produzione io uso una tecnica mista che parte da un negativo classico che poi segue il processo di stampa su carta fotografica, scannerizzazione e dunque digitalizzazione, ed infine stampa con metodi differenti a secondo di ciò che devo realizzare. Su carta ad inchiostro o attraverso il sistema LAMBDA. Ma più che la fase tecnica di stampa, il digitale ha rivoluzionato il concetto di foto – fare una foto. Il processo era già iniziato nel 1988 quando uno slogan della mitica Kodak recitava. “ Voi premete il bottone noi facciamo il resto”, da qui in poi è storia e la digitalizzazione ha follemente potenziato questa idea.
Si potrebbe dire che la fotografia, come immagine, già esiste inconsciamente nella mente dell’autore-fotografo, e che sia il suo selezionare a rende l’immagine qualcosa di artistico? Altrimenti chiunque scatti una foto, con un cellulare o macchina fotografica che sia, può ritenersi artista-intellettuale?
Nel libro di Franco Vaccari: “Fotografia e inconscio tecnologico” si trova la conferma a questa idea. Ovvero quando un fotografo guarda nel mirino non fa altro che selezionare il significante rispetto all’insignificante. Una foto che ha determinati confini, non vuol dire altro che tutto ciò che sta’ al di sopra, al di sotto, a destra ed a sinistra di essa non ha importanza. Ha selezionato un elemento della realtà, della percezione di cui sicuramente nel suo inconscio c’è una traccia, una specie di predisposizione. Perciò quello che lei dice è vero ma dovrebbe essere confrontato con i modelli della scuola di psicologia della Forma, in tedesco Gestalt, la quale ritiene che la nostra percezione sia un processo immediato influenzato dalle nostre esperienze precedenti. Anche molti teorici della poesia romantica avevano teorizzato simili idee. Samuel Taylor Coleridge parla di shock del riconoscimento, ovvero quell’immediata identificazione che un artista avverte nel vedere un determinato oggetto, e dunque il conseguente verificarsi del desiderio di possesso dello stesso.
Di sicuro non chiunque faccia foto si può ritenere artista, per il quale sono certo necessari dei parametri, al massimo fotografo. La questione allora è da affrontare da un altro punto di vista. Per capire si può prendere ad esempio un musicista, egli dovrà studiare ed esercitarsi a lungo per affinare le sue capacità. La macchina fotografica invece regala questo senso di onnipotenza diciamo immediato.
Cosa ne pensa della manipolazione dell’immagina a posteriori?
Anche i dadaisti in maniera molto più naïf realizzavano i collage, loro invenzione e manipolazione. Il Photoshop permette un collage molto più sofisticato. Se usarlo o no è il dubbio che resta, ma che si potrebbe facilmente dissipare se si pensasse a Photoshop come al corrispettivo, molto più pratico e sicuramente portatile, della camera oscura e non come a uno strumento di totale manipolazione. E per manipolazione non intendo operazioni di ritaglio, ingrandimento, saturazione e simili, cose sempre fatte e che non vengono ritenute una falsificazione della realtà, ma veri e propri stravolgimenti.
Per avvalorare la tesi secondo cui tagliare o ritoccare un’immagine non sia una falsificazione si possono citare diversi aneddoti, il più significativo a mio parere è quello riguardante la foto simbolo e più conosciuta al mondo del rivoluzionario e guerrigliero cubano Che Guevara. Realizzata dal fotografo Alberto Korda non è altro che un ritaglio di una foto in cui il Che era affiancato da altre personalità di spicco di quegli anni. Nonostante Korda avesse ampliamente documentato la Rivoluzione cubana e fotografato Che Guevara anche in classiche pose da ritratto, quel ritaglio esprimeva e rappresentava meglio di qualunque altro lo spirito di cambiamento e rivoluzione che animava il sud America ed in particolare Cuba. Questo fa capire come il fatto di tagliare o meno un’immagine sia del tutto discutibile, in quanto conta l’effetto visivo finale. Un grande detrattore di questa pratica è sicuramente Henri Cartier – Bresson, il quale riteneva assolutamente fuori luogo tagliare e riquadrare un’immagine a posteriori. Ma che sicuramente si avvaleva di altre tecniche di ritocco dell’immagine già esistenti in camera oscura, dal tipo di carta fino al differente acido per ottenere gradazioni ed effetti diversificati. Far questo non è mai stato ritenuto una manipolazione, il negativo è una matrice e su di essa si può lavorare come meglio si crede.
Le nuove tecnologie, soprattutto a buon mercato, hanno creato una folta schiera di sedicenti artisti o presunti tali, o magari nella peggiore delle ipotesi autoproclamatisi tali a mezzo di blog e similari. La massificazione dell’arte e ciò che ne consegue lei lo ritiene un fenomeno positivo o inevitabile?
Teorici della cultura di massa come Theodor Adorno, W. Benjamin e la stessa scuola di Francoforte avevano previsto questi fenomeni cinquanta anni fa. Cioè cosa la democratizzazione della cultura avrebbe comportato, di positivo sicuramente per certi aspetti ma che rimane comunque un problema enorme che cominciò già nel secondo dopoguerra.
La Parigi intellettuale ormai si può affermare non ci sia più. Dove si è spostata la comunità intellettuale e come mai?
Il fenomeno parigino ha avuto due punte reali, produttive e non modaiole, gli anno ’20-’30 e il dopoguerra ovvero il periodo dell’esistenzialismo. Dopo di che tutto il resto è per lo più folklore a partire da Montmartre. Attualmente non saprei dire frequentandola molto meno. Invece penso che la comunità intellettuale ed artistica si sia e si stia concentrando a New York. E’ una questione quasi del tutto economica, l’artista cerca affitti a buon mercato e dunque la sua ubicazione è influenzata anche dall’andamento del mercato immobiliare. A Parigi valeva la stessa regola, anche perché vivere in luoghi dove gli affitti sono più cari vuol dire stare a stretto contatto con la borghesia, cosa impensabile. A New York diversi quartieri inaccessibili e degradati come Brooklyn, da cui è iniziato tutto, Chelsea ed Hell’s Kitchen si sono trasformati in luoghi trendy e vivibili proprio grazie all’arrivo di intellettuali ed artisti.
La prossima lezione del Prof. Carlo Garzia si terrà martedì 24 gennaio 2012 ore 17.15, presso l’aula multimediale del Politecnico di Bari in via Amendola 126/d.
L’intero programma delle lezioni, e condizioni per la partecipazione, sono elencate nell’altricolo precedente pubblicato su questo stesso magazine.