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Sta avendo successo, soprattutto nel Salento, il libro dal titolo “Legami di sangue”, sottotitolato “Famiglie e vicende all’ombra di Achille Starace” ed edito da Giuseppe Laterza (252 pagine, 18 euro).
L’opera della scrittrice salentina Annalisa Bari (a cui ha collaborato un nipote di Starace, Tonino Guarino) è diventato un vero e proprio caso letterario nel Salento. Il libro è la ricostruzione fedele della storia di una famiglia: la madre, Maria, sorella di Achille Starace; il padre, Giuseppe Guarino, sindaco e poi podestà di Campi Salentina; il figlio Tonino, oggi ottantottenne, che ancora porta dentro di sé i segni di un’eredità spirituale pesante ed esaltante insieme. E tutti gli altri fratelli e sorelle del gerarca, a partire dagli avi, nonché i figli e i nipoti ancora viventi.
Nel tempo, bambino, giovane, adulto, il nipote Tonino prende consapevolezza di appartenere a una famiglia speciale: navigatori avventurosi, coraggiosi, quasi leggendari, col commercio nel sangue, gli Starace; borghesi tranquilli e rispettati, sognatori e amanti delle lettere i Guarino. Ne viene fuori un personaggio complesso: un artista, un creativo, un idealista, dolcemente ribelle. Un privilegiato con la voglia di “normalità”.
La figura di suo zio Achille, che compare e scompare come una meteora, getta luce e ombra nella sua vita, e genera la voglia di sapere e di capire.
Nel momento del crollo del fascismo, del panico, del timore di persecuzioni, di vendette, di giustizie sommarie, dell’inevitabile isolamento, tra tutti i parenti del gerarca, soltanto il giovane Guarino ha il coraggio di salvare tutto ciò che appartiene ad una famiglia compromessa, desiderosa in quel momento di cancellare persino il nome.
Divenuto nel tempo meticoloso depositario di memorie inedite, a lui sono ricorsi Spinosa e Festorazzi, traendo per le loro biografie solo ciò che poteva essere utile ad illustrare un personaggio già univocamente delineato dalla fama collettiva, dalle relazioni dell’OVRA, dai nemici personali, dai detrattori di parte, e persino dai burloni.
Tutto il resto, riguardante la vita privata, gli affetti, gli intimi convincimenti, i luoghi domestici, le relazioni personali, è rimasto sotto la polvere per un secolo, volutamente dimenticato.
Da questa ricostruzione, lontana da improbabili revisionismi, emerge quindi l’altra faccia di Achille Starace: quella umana, così come era conosciuta dai parenti e dai più intimi. Ed emerge uno spaccato di vita provinciale nel Salento della prima metà del ‘900.
L’opera può definirsi una saga familiare che, partendo dalla fine del ‘700, scolpisce il contesto storico e culturale entro il quale si è andata formando la personalità del gerarca e di un suo parente prossimo, Tonino Guarino appunto, che, come gli altri parenti, nel bene e nel male, ne è stato coinvolto.
Volume, dunque, di notevole rilevanza storica, contiene diverse fotografie e la riproduzione parziale dell’affettuosa e lunga lettera indirizzata a Don Achille (così è ancora ricordato nel suo paese natale, Sannicola) da Gabriele d’Annunzio nel 1937, per complimentarsi del suo libro autobiografico – di notevole successo – intitolato “La Marcia su Gondar”.
Particolarmente interessante è il sedicesimo capito, dal titolo “Sete, chiffon e… orbace”, ma non vogliamo svelarvene il motivo.
Starace, classe 1889, fu eroico ufficiale dei bersaglieri durante la Prima Guerra Mondiale (decorato della Croce di Cavaliere dell’Ordine Militare di Savoia, della Medaglia d’Argento e di quattro Medaglie di Bronzo al Valor Militare), quindi esponente di rilievo del fascismo già dal 1920, fino ad assurgere, nel 1931, alla carica di segretario del Partito Nazionale Fascista.
Nel 1936, alla testa di una colonna celere che portava il suo nome, contribuì alla conquista dell’Etiopia.
Ma nel 1939 iniziò il suo declino politico. Privato di ogni incarico, visse gli ultimi anni in estrema povertà. Privato di ogni incarico, visse gli ultimi anni in estrema povertà.
Il 28 aprile 1945, a Milano, venne arrestato da una squadra partigiana, che lo condusse al Politecnico dove, a seguito di uno sbrigativo processo-farsa (come si usava in quel periodo), venne condannato a morte per fucilazione.
Il giorno seguente fu condotto in piazzale Loreto (dove erano appesi, a testa in giù, i cadaveri di Mussolini, della Petacci e di altri gerarchi), non intimorito dalle pesanti ingiurie della folla, sostò un attimo in raccoglimento innanzi al cadavere sfregiato del Duce, quindi lo salutò romanamente. Alcuni partigiani lo afferrarono e lo misero con la faccia al muro, mentre si andava disponendo il plotone di esecuzione. Dato che la scarica tardava a venire, per due volte si voltò ed intimò: «Fate presto». Dunque cadde crivellato a morte. Cinquantacinquenne, morì eroicamente, come aveva vissuto.