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Dopo 203 anni, torna per la prima volta alla Galleria Borghese una preziosa selezione dei capolavori d’arte antica venduti nel 1807 a Napoleone e divenuti il nucleo essenziale delle raccolte di antichità del Louvre. Dall’8 dicembre saranno esposte 60 opere di grande rilevanza, che mai avevano lasciato il museo parigino, fra cui il Vaso Borghese, con scene dionisiache (30 a.C), l’Ermafrodito restaurato da un giovanissimo Bernini, le Tre Grazie, le Quattro Sfingi e la celeberrima e discussa scultura policroma del Seneca Morente.
Intitolata "I Borghese e l’Antico", l’importante rassegna (che si configura tra le manifestazioni di spicco dei 150 anni dell’Unità d’Italia) è stata curata da Jean Luc Martinez e Marie Lou Dubert per il Museo del Louvre, Anna Coliva e Marina Minozzi per la Galleria Borghese, che hanno selezionato i meravigliosi marmi per restituire un’idea, filologicamente corretta, di uno dei più grandi patrimoni del collezionismo. Torneranno opere monumentali, molte delle quali saranno allestite nelle collocazioni originarie, prima della dissoluzione della raccolta più celebrata di tutti i tempi, ricreando così per la prima volta anche quella unità tematica, oggi solo intuibile, data dall’accostamento di opere pittoriche e scultoree. Al piano terreno l’allestimento rispecchierà quello tardo-settecentesco, quando tutta Europa guardava alla Villa Borghese come al nuovo modello di esposizione e interpretazione dell’antico. Al primo piano della Galleria verrà messa in evidenza l’importanza assunta dalla collezione del cardinale Scipione fin dalla sua formazione, tra il 1607 e il 1609. Alcuni dei capolavori, come le Tre Grazie e il Centauro cavalcato da Amore, torneranno nelle Sale che per oltre un secolo e mezzo furono ad essi intitolate.
Attraverso questa carrellata di rarissimi capolavori, il vero cuore della mostra, in definitiva, sarà proprio la documentazione di una delle più "sensazionali vendite mai avvenute". Nel 1807, infatti, Camillo Borghese, marito di Paolina Bonaparte, accettò di vendere 514 pezzi, tra statue, vasi e rilievi, alla Francia per volontà del cognato Napoleone, che perseguiva il proposito autocelebrativo di dotare la capitale del suo impero del più spettacolare museo pubblico delle arti universali, il Louvre.
Concluso l’affare, due convogli partirono per Parigi in fasi successive, comprendendo anche, come ben documentano i materiali conservati presso gli Archivi nazionali di Parigi, due capolavori di Canova. La somma pattuita di 8 milioni di franchi e di oltre 300.000 franchi di rendita pubblica fu solo in parte coperta dalla cessione del feudo di Lucedio (in Piemonte, a Vercelli), dove Camillo si trasferì quale governatore generale dei dipartimenti transalpini dell’impero francese.
La perdita di questa straordinaria collezione ebbe un impatto fortissimo sulle coscienze del tempo. Antonio Canova, che sulle sculture della Villa aveva condotto il suo appassionato studio dell’antico, l’avrebbe definita nel 1810, davanti a Napoleone, come "una incancellabile vergogna" per la famiglia che possedeva "la villa più bella del mondo". L’indignazione civile fu tale che sfociò nell’editto del cardinal Pacca (1820), considerato la prima organica giurisdizione in materia di beni culturali, antesignana della normativa di tutela che sarà varata dallo Stato Italiano all’indomani della sua unificazione.