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La storia di Steve Jobs – che oggi rappresenta nelle intenzioni e nelle menti di tutti i più importanti managers del mondo un vero e proprio ideale di “performance” – è giunta qualche giorno fa al suo naturale capolinea; senza gesti eclatanti, dispensandosi dalle più autorevoli conferenze stampa, glissando argomenti noti ai più, lui – il comunicatore per antonomasia, quello che ha sempre presentato i suoi “gioielli” tecnologici indossando jeans, maglione girocollo nero e sneaker – ha preferito inviare una mail agli azionisti, al CdA Apple e agli oltre 50.000 dipendenti sparsi per il mondo.
Poche righe ma efficaci “…non riesco più ad assolvere alle mie funzioni e vi avevo promesso che sareste state i primi ad apprenderlo…” ma “….sono convinto che Apple abbia ancora davanti a sé i giorni più fulgidi e innovativi della sua esistenza….” e ancora “…consiglio che Tim Cook venga nominato Amministratore Delegato di Apple”
Naturalmente le parole del fondatore della Casa di Cupertino sono state per alcuni giorni sotto la scrupolosa lente di ingrandimento di analisti e sociologi i quali hanno cercato di sviscerarne significati “economici “ e non solo. Che Timothy Cook, classe 1960, cresciuto in Alabama, uomo chiave in IBM e Compaq dovesse essere il successore naturale di Jobs era una quasi certezza: dal 1998 è stata l’ombra di Steve Jobs, l’uomo che lo ha seguito praticamente in tutti i progetti e che ha lavorato quotidianamente a stretto contatto con lui, avendone preso le veci già nel lontano 2004 in occasione della prima operazione di cancro al pancreas, due anni fa quando si era sottoposto a un trapianto di fegato e quindi ancora all’inizio di questo anno sempre per motivi di salute dell’ex CEO. In ufficio dalle cinque di mattina, dopo mezz’ora di palestra lascia spazio a quello che viene definito il suo “genio operativo”: manifattura, relazioni con i fornitori e vendite; il tutto sino alle 20 della sera, ora in cui abitualmente lascia il suo ufficio.
In questo senso i mercati hanno ben retto ad un contraccolpo che gli economisti avevano erroneamente diagnosticato e questo perché – secondo David Yoffie, professore della Harvard Business School – per i prossimi due o tre anni la strada di Apple è già tracciata.
In effetti una delle grandi qualità universalmente riconosciute a Steve Jobs è proprio quella di essere stato in grado di agire nell’immediato pensando con una mente proiettata cinque o sei anni avanti rispetto alla realizzazione; in buona sostanza e senza Jobs saremmo arrivati all’Iphone solo oggi; ma non è l’unica. E qui – forse nasce quello che potrebbe essere davvero il futuro dei successi della Mela; a Steve Jobs è sempre piaciuto venire identificato non come un manager ma come un leader. Bene. Di questo sarebbe opportuno parlare: di un vero leader, di uno cioè che ha “condotto” ma che ha saputo costruire attorno a sé un team che non ha precedenti; da un lato c’è Cook, il suo alter ego ma dall’altro ci sono Jonathan Ive – Responsabile del “look and feel” che ha reso i prodotti Apple unici, Scott Forstall – Responsabile SW e sistemi operativi, Eddie Cue – Responsabile dei servizi internet e infine Schiller – capo del Marketing.
Essere un buon manager non significa essere un buon leader ma Steve Jobs è anzitutto carisma allo stato puro. Ha costruito con quel carisma una squadra fatta di uomini vincenti e che – per questa ragione – non tradiranno le sue intenzioni. Rassegnare le proprie dimissioni con uno slancio di onestà intellettuale significa molto ricordando alla Community che “Apple non cambierà”; farlo in poche righe, designando anche il futuro AD – però – sembra essere davvero l’ultimo privilegio concessosi: quello di aver dimostrato di essere un leader vero, sino alla fine.