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Pubblicato l’anno scorso per le edizioni Arcana, il libro Delitti Rock di Ezio Guaitamacchi diventa un programma televisivo. Dieci gli appuntamenti che Rai 2 trasmetterà dal 19 settembre, ogni lunedì alle 23.30, basandosi sull’opera dello scrittore e direttore di Jam, nota rivista musicale.
Delitti Rock proporrà le storie di artisti rimasti “per sempre giovani”, scomparsi in luoghi ed epoche diverse, in contesti opposti o che presentano curiosi intrecci. Si produrranno interviste esclusive e filmati d’epoca di fuoriclasse accomunati da un’esistenza breve ma geniale.
In studio, l’attore Massimo Ghini esporrà con fluidità narrativa le vicende di John Lennon, Michael Jackson & Elvis Presley (una sorta di puntata doppia), Jim Morrison, Jimi Hendrix, Kurt Cobain, Sid Vicious (Sid & Nancy), Brian Jones, Janis Joplin, Luigi Tenco (unico “delitto rock” italiano) e Amy Winehouse. Miti del rock (e non solo) che, molto spesso, sono scomparsi alimentando un fitto alone di mistero. Previste anche riprese esterne, in un viaggio che farà tappa allo Strawberry Field Memorial di New York, intitolato a Lennon, e al monumentale Père-Lachaise di Parigi, dove riposa Morrison.
A pochi giorni dall’inizio della serie televisiva abbiamo raggiunto telefonicamente Guaitamacchi, che ha palesato la sua sconfinata passione per il giornalismo musicale e ha riepilogato il lavoro alla base del progetto, non lesinando anticipazioni sui singoli Delitti Rock.
Si ritorna a parlare di musica rock in televisione. Com’è nata l’idea di trasferire alcune pagine del libro in TV?
L’idea del programma televisivo è nata prima della realizzazione del libro.
Nella prefazione racconto la storia di una mia amica (l’attrice Lana Clarkson, nda) rimasta vittima della furia omicida di Phil Spector, uno dei più grandi producer della storia rock. Avevo per la mani un instant book che ripercorreva le ultime fasi della vita della mia amica e, colpito personalmente dalla vicenda, ho pensato che sarebbe stato possibile realizzare qualcosa di simile anche per le leggende della musica. Una sorta di biografia al contrario di musicisti legati a storie “noir” che si prestavano all’adattamento televisivo. Ho fatto dieci puntate test per la RSI (Radio della Svizzera Italiana) e ho visto che il programma funzionava bene, quindi, ho proposto l’idea a Giorgio Faletti che ritenevo all’altezza del ruolo di conduttore. Da questo punto in poi si è sviluppata l’idea della serie televisiva che ha avuto un percorso molto travagliato e che per certi versi credevo di dover accantonare. Ma avevo raccolto tanto di quel materiale che ho pensato di riversarlo in un libro. La pubblicazione è piaciuta all’allora direttore di Rai2 Massimo Liofreddi che, apprezzando l’idea della realizzazione del programma, ha dato il via all’iter produttivo.
Tanta incertezza per l’assegnazione della conduzione (tra i nomi indicati, i più accreditati erano Giorgio Faletti prima e Amanda Lear poi). Alla fine è stato scelto Massimo Ghini. E’ stata una sua precisa decisione? Non sarebbe stato più idoneo qualcuno proveniente dal mondo musicale?
Faletti è il più popolare giallista italiano, è un grande appassionato di musica e per tanti anni ha fatto l’attore: mi sembrava la persona più indicata. La sua impossibilità di accettare si è determinata per la mancata coincidenza tra i suoi tempi e quelli messi a disposizione dagli studi della Rai. A quel punto mi è sembrato giusto rivolgermi comunque ad un attore per sviluppare il concept e ottenere una narrazione credibile per le storie, per l’introduzione delle interviste e per l’illustrazione dei documenti d’epoca. A parte Amanda Lear che avevo personalmente scelto, e che per una serie di motivi non ha potuto accettare, tutti gli altri nomi che sono rimbalzati non erano attendibili. La scelta è ricaduta su Ghini che, dopo un lungo colloquio, ha messo in luce la sua grande passione per la musica rock. Ha fornito una chiave interpretativa completamente diversa da quella che avrebbe esibito Faletti, ma altrettanto convincente.
Quali le valutazioni prima di stilare la classifica dei nomi che avrebbero avuto una puntata tutta loro?
Di comune accordo con la direzione della rete abbiamo scelto i casi più popolari salvo includere quello di Janis Joplin, non molto noto ma a me molto caro, che rappresentava l’unica vicenda al femminile fino a quando non è venuta a mancare Amy Winehouse, a cui verrà dedicata una puntata “speciale” che è stata aggiunta alla serie (originariamente pensata in 9 puntate).
La nuova direzione di Rai2 ha accettato subito la proposta di aggiungere il “caso Winehouse” viste le caratteristiche del tragico epilogo così simile (per circostanze e modi) a quello delle più leggendarie rockstar della storia.
Il programma approfondisce anche storie di protagonisti estranei al mondo rock. I puristi di questo genere potrebbero storcere il naso all’idea dell’inclusione di Amy Winehouse nell’elenco, mentre i fan della cantante potrebbero definire cinica la messa in onda della puntata a poche settimane dalla morte. In base a quali criteri ha deciso d’inserirla?
Il delitto è tecnicamente un omicidio ma può anche essere interpretato come un peccato: dispiace che una grande artista muoia a 27 anni. I casi scelti, dunque, non sono tutti riconducibili a delitti veri e propri ma scomparse che avvengono per incidenti o altre cause.
A parte Amy Winehouse e Michael Jackson tutte le altre personalità fanno parte delle leggende rock. Mi riferisco a John Lennon, Jimi Hendrix, Jim Morison, Kurt Cobain, Syd Viciuos, Janis Joplin e non mancano le anomalie rappresentata da Luigi Tenco, che in una certa ottica può risultare “cantatore rock”, ed Amy Winehouse per l’appunto, “artista rock” che ha incarnato lo spirito ribelle, anticonformista e che ha vissuto la tipica vita di eccessi comune a tutta la categoria.
Il termine rock incluso nel titolo non è quindi riferito ad una definizione da critico musicale, e poi dal punto di vista puramente fonetico “delitti rock” suona bene. Sono sicuro che mi faranno una serie di addebiti ma non credo che mi romperanno le palle perché Michael Jackson non è rock! Tra l’altro la puntata incentrata sul suo caso sarà doppia e avrà per co-protagonista Elvis Presley: si tratteranno i destini incrociati del “re del pop” e del “re del rock", parenti post mortem di Elvis (sua figlia Lisa Marie è stata per due anni la moglie di Jackson, nda) che condividono strane coincidenze tra cui le morti che molto si assomigliano.
La tua precisazione chiarisce un titolo che poteva risultare fuorviante, visto che tra gli undici casi oggetto del programma, solo quello di John Lennon, in realtà, è stato archiviato come crimine.
Sì, ma ti anticipo anche che nell’approfondire alcune morti “sospette” si avanza l’ipotesi che le inchieste non abbiano fatto completamente luce perché, forse, si sono determinati altri scenari. Mi riferisco a Brian Jones, Jimi Hendrix, Kurt Cobain, Luigi Tenco e non tanto alla morte di Syd Vicious quanto a quella della sua fidanzata Nancy (Spungen, nda).
Tra Presley, Morrison e Lennon, chi se la caverebbe meglio in una realtà musicale incentrata sull’odierno marketing aggressivo?
Non ho dubbi: Elvis! Jim Morrison rifiutava i meccanismi della commercializzazione della musica e pare che, stanco di fare la rockstar, fosse andato a Parigi per fare esclusivamente il poeta.
Lennon fece delle scelte precise, era politicamente impegnato, addirittura fu protagonista del Lost weekend in cui lasciò perdere la carriera professionale per dedicarsi alla vita privata (nel biennio ’73-’75 si era tenuto fuori dalla scena pubblica, nda). Presley, analogamente a Jackson, era la quintessenza del personaggio, un personaggio che a un certo punto prevale sulla persona e la cannibalizza. Elvis era un divo: la sua è stata una vita di eccessi e non sarebbe stata diversa calata nella realtà corrente.
Lei ha riferito che “la morte prematura di alcune celebrità ha avuto l’effetto di far passare questi personaggi dalla cronaca alla storia”. A quali tra i 200 casi trattati nel suo libro si riferisce in particolar modo?
Un caso emblematico è certamente quello di Jeff Buckley. Un ragazzo dal sicuro talento – ho anche avuto la fortuna di vederlo in concerto – che ha realizzato un solo album (Grace del 1994, nda). Un artista la cui morte l’ha proiettato nell’olimpo dei grandi senza di fatto avere una carriera. Con questo non voglio sminuirne il valore, però il critico musicale dovrebbe basare i propri giudizi su valori oggettivi e, al di là dello straordinario album che ha fatto, dell’indubbia capacità compositiva nonché interpretativa, non c’è possibilità di valutarne la carriera. La storia della musica è piena di brillanti debutti che però non hanno avuto un seguito all’altezza delle aspettative. Lo dico con obiettività e non per risultare cinico nei confronti di Buckley, che è un artista che mi piace e che ha avuto anche il merito di far tornare in auge la figura del padre Tim. Ma non è il solo caso. Per assurdo anche il mito di Jim Morrison, a ben vedere, è stato ingigantito dalla sua morte nonostante, a distanza di quarant’anni, al cimitero di Père-Lachaise di Parigi la sua tomba sia ancora meta di considerevole pellegrinaggio.
Sai, la morte ha questo effetto di mettere tutti, anche i più grandi o i più eroici, alla pari dei comuni mortali, ma d’altro canto innesta questo turbo straordinario che ha il pregio di cristallizzare l’immagine e lasciarla eternamente giovane e affascinante. Sarebbe impensabile vedere Jim oggi, a settant’anni che si dimena sul palco, vecchio e brutto come Ozzy Osbourne.
Sono fermamente convinto di quel che dico. Si pensi a Syd Vicious che a malapena sapeva suonare due note al basso. La sua storia è pazzesca, sembra la sceneggiatura di un film proprio come molte delle morti trattate nel programma. Neanche Oliver Stone, che tra l’altro ha girato un film discutibile sui Doors, sarebbe stato in grado di elaborare una sceneggiatura così incredibile. La fama dei personaggi e il periodo storico in cui questi drammi si sono consumati hanno consegnato questi musicisti al mito.
Proprio nell’ultimo numero di Jam, mensile musicale da lei diretto, si menziona il 1991 quale ultimo periodo di rovesciamento delle regole. A distanza di vent’anni Nevermind viene ristampato a rimarcare il ruolo anticipatore che ha rivestito. Una volta per tutte andrebbe asserito che quella prodotta da Kurt Cobain & Co. è stata vera rivoluzione rock nata negli scantinati di Seattle, non un disegno architettato dai manager delle case discografiche.
Nella puntata relativa a Kurt Cobain, c’è una bellissima intervista rilasciata a Jack Endino, noto come il primo produttore dei Nirvana, che meglio spiega il fenomeno.
Quella di Seattle è una storia straordinaria. L’atmosfera di quel periodo ricorda la San Francisco degli anni ’60 e ritengo che non ci sia stato alcun progetto. Seattle, città spoglia ed estrema per tante cose tra cui il clima e la latitudine, è stata una grande scena artistica. Lì il rock è nato proprio nelle cantine, alla stessa stregua di quanto avvenuto con il punk-rock al CBGB di New York. Il grande meccanismo che si è mosso dietro è stato successivo. L’industria non scopre mai niente, piuttosto sfrutta e non costruisce certo un tipo di fenomeno antagonista e molto duro caratterizzato da una musica poco fruibile. Taluni puristi del rock definiscono Nevermind un disco pop ma, ancora a vent’anni di distanza, chi non è avvezzo al genere ne resta impressionato dall’ascolto.
La morte prematura nella musica fa vendere…
Qualcuno dice che morire giovani è, per le rockstar, la miglior mossa di marketing.
… ma non solo dischi. Fa vendere anche libri e fa fare audience. Come si può trattare l’argomento in maniera delicata, senza offendere la memoria dell’artista e il suo fan?
Ho provato a mettermi nei panni delle famiglie. Comunque si tratta di personaggi pubblici e pur rispettando il dolore credo sia giusto raccontare le loro storie. Cito Jimi Hendrix, per spiegare meglio il concetto, che una volta disse: “quando sarò morto continuate a suonare la mia musica”. Un invito a parlarne comunque, a farne ascoltare l’arte. Credo che il mio programma sia un modo per farlo. Però non c’è business dietro chi racconta. Di solito non è il singolo che fa business ma l’industria. E poi molto dipende da personaggio a personaggio. Dietro Michael Jackson c’è un affare da milioni di dollari e forse anche dietro la morte della giovane Winehouse qualche soldo c’è.
Qualche anticipazione sul programma?
Rispetto al libro, il programma presenta delle sorprese. Ho raccolto circa 50 interviste, molte esclusive, tra New York, Londra, Seattle, San Francisco, Los Angeles, Parigi e in giro per la Liguria. Ho catturato i ricordi e le testimonianze di chi ha vissuto e studiato i casi trattati e di chi ha presentato un’opinione rispettabile, quantomeno da ascoltare, cercando di raccontare storie plausibili. Da alcune interviste emergono elementi e circostanze che fanno pensare che le cose non sono andate proprio nel modo che conosciamo: a volte cambia poco nella dimensione dell’artista, a volte molto. Se si scopre che, ad esempio, Kurt Cobain non si è suicidato ma è stato ucciso o che Tenco non si è suicidato ma è stato ucciso, anche le canzoni posso assumere un significato diverso. Oppure se si dovesse scoprire che Brian Jones è stato ammazzato e non è annegato fortuitamente, la sua figura dovrebbe essere rivaluta o presa in considerazione in maniera differente. Da parte mia non c’è stata alcuna velleità di svolgere il ruolo dell’investigatore, come si sa io faccio il giornalista musicale. L’obiettivo prefissato era quello di raccontare alcune storie al di là della tragicità dell’evento. Proprio come diceva Jimi Hendrix: “muore l’artista ma la musica resta viva”.