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Domenica 14 agosto, come ogni anno dal 2008, un nutrito gruppo di appassionati di vicende di storia risorgimentale si è ritrovato a Pontelandolfo, in provincia di Benevento, per ricordare le vittime di una triste pagina di storia risorgimentale che vide protagonisti i paesi di Pontelandolfo e Casalduni.
Si trattò di una strage compiuta dal Regio Esercito Italiano ai danni della popolazione civile il 14 agosto 1861. All’indomani della piemontesizzazione d’Italia e, a quasi un anno del plebiscito di annessione del Regno delle Due Sicilie al Regno di Sardegna, l’esasperazione delle masse contadine aveva raggiunti cospicui livelli. Se il Borbone non brillava per acume politico, eccedendo nel paternalismo verso la popolazione tanto peggio facevano i Savoia che quasi subito furono avvertiti al Sud del nuovo stato unitario come arroganti e vili. All’antico giogo servile del feudalesimo imposto della aristocrazia latifondista borbonica si sostituiva quello dell’arroganza dei Piemontesi che, diversi per lingua e costumi, cercavano di imporre se stessi e debellare anche quanto di buono vi era nella tradizione millenaria dei popoli a sud della penisola.
Le continue angherie dei militari italiani, fiancheggiati dalla nascente borghesia locale arraffona e forcaiola, finirono per armare colpevolmente la mano dei contadini sanniti come di quelli lucani. Nell’agosto 1861 tra le vallate di Pontelandolfo e Casalduni si sparse la voce che il colonnello Ferdinando Beneventano del Bosco, risalendo la penisola era pronto a riconquistare quelle terre in nome di Francesco II di Borbone. Fu così che in brevissimo i contadini più accesi scesero in strada e catturarono tutti coloro che potevano rappresentare un simbolo dell’esercito invasore. Furono così catturati 45 militari piemontesi (un ufficiale, quaranta bersaglieri e quattro carabinieri), inseguito furono fatti oggetto della ferocia del popolo cieco e sobillato e fucilati per ordine del brigante Angelo Pica.
Era l’11 agosto. Solo un sergente del reparto sfuggì alla cattura e raggiunse Benevento, dove informò i suoi superiori dell’accaduto. Essi dopo aver consultato sulla vicenda alcuni informatori sparsi per il contado, chiesero l’intervento diretto del generale Enrico Cialdini, uomo notariamente assai crudele, che attuando in modo fin troppo zelante le disposizioni generali sul Mezzogiorno, ordinò l’incendio di Pontelandolfo e Casalduni con la fucilazione di tutti gli abitanti dei due paesi "meno i figli, le donne e gli infermi".
Cialdini a sua volta incaricò il colonnello Pier Eleonoro Negri e il maggiore Melegari, che comandavano due reparti diretti rispettivamente a Pontelandolfo e a Casalduni. Anche Negri pare si distinguesse per zelo verso i superiori e scarsa umanità verso la popolazione civile meridionale testimonianza ne è data dal diario di un bersagliere, Carlo Margolfo, che partecipò al massacro e così racconta:
"Non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli cui la sorte era di morire abbrustoliti o sotto le rovine delle case. Noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava" e ancora "Furono tre ore di fuoco, dalle case venivano portate fuori le cose migliori, i bersaglieri ne riempivano gli zaini, il fuoco crepitava".
Oggi, nel 150° anniversario della proclamazione dello stato unitario occorre ricordare anche i morti, le stragi e gli enormi dolori patiti dalla popolazione civile meridionale al fine di proclamare con più forza e coraggio l’Unità d’Italia. Le colpe dei padri, storicamente, non ricadono mai sui figli, per questo l’unità nazionale, va sentita non solo come necessità hegeliana, come occorrenza di forze politiche transnazionali, bensì come il frutto di sforzi e sacrifici comuni patiti da ambo le parti per ristabilire quel "contratto sociale" chiamato Italia a cui nessuno di noi – ci ha insegnato J.J. Rousseau – neppure volendo può sottrarsi.