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Continua il viaggio dedicato alla storia della Puglia e del Meridione, descritta dall’appassionato di storia e cultura barese Nicola Mascellaro che da più di trent’anni fotografa questa realtà e la racconta. Al suo attivo ha diverse pubblicazioni.
È l’anno in cui inizia l’agonia della prima Repubblica, in cui il Paese è all’ultimo stadio dell’imbarbarimento politico, economico e morale; all’epilogo dell’Intervento straordinario nel Mezzogiorno, del Partito Comunista Italiano; della Federazione jugoslava, del Patto di Varsavia e della lunga storia del socialismo italiano che celebra il suo ultimo congresso proprio a Bari e, sempre a Bari, dopo l’incontro di calcio Bari-Napoli, finisce l’era di Maradona trovato positivo al controllo antidoping.
Siamo all’epilogo di una stagione esaltante del teatro Petruzzelli sul palcoscenico della lirica mondiale e, soprattutto, alla fase iniziale delle ‘esternazioni’ dell’uomo sul Colle, Francesco Cossiga, che da silente Capo condomino ‘super partes’ diventa Capomastro di un ‘Palazzo’ in demolizione: «sono stufo di comportarmi come un passivo registratore magnetico».
«La verità è che, al di là delle interpretazioni in buona o in mala fede – commenta il direttore della Gazzetta dopo l’ennesima esternazione di Cossiga – al di là di alcuni oggettivi ‘sconfinamenti’ verbali, il Presidente della Repubblica ‘esterna’ con un linguaggio al quale non eravamo più abituati. Da qui probabilmente, oltre al disagio per il mutare di una lunga consuetudine di silenzio, lo sconcerto di gran parte del mondo politico per l’improvviso ‘new deal’ cossighiano. Non solo il Capo dello Stato parla, ma parla ed argomenta in un modo che si credeva dimenticato. Il fatto è che Cossiga ha fatto suo il pensiero e il linguaggio della gente ed è su questo aspetto che i partiti dovrebbero riflettere». Accade nel 1991. Inizia una lunga serie di avvenimenti che porteranno il Paese alla ‘decostruzione’, per usare un termine del sociologo Giuseppe De Rita. La società italiana è malata, perennemente in crisi. Non crede più nelle istituzioni, nei processi economici e sociali, perfino l’antica, solida famiglia italiana è in crisi. E dopo il crollo del Muro di Berlino anche le ideologie, i partiti e i loro apparati sono entrati a far parte del nostro scontento.
Ormai nessuno riesce a toglierci questa sensazione di malessere, di sfascio e insieme di impotenza che da qualche tempo ci accompagna. È tangibile il contrasto fra il Paese che bene o male lavora e produce e le amministrazioni locali, lo Stato che affoga nei debiti. È palpabile il rapporto perverso fra il Paese che cerca voce e la classe politica, i partiti che restano muti, chiusi nelle loro ‘botteghe’e, dopo aver occupato, invaso tutto il potere possibile appaiono come prigionieri del loro stesso gioco, del sistema che hanno costruito e che ora li paralizza.
La gente, l’uomo della strada si diceva un tempo, è pervaso da un’insicurezza diffusa, dalla violenza e dalla criminalità, grande e piccola, spesso connessa ad una rete di corruzione, ricatto, estorsione a tutti i livelli alimentando la convinzione che lo stato delle cose è ormai intollerabile, che la tela della Prima Repubblica si è smagliata, è finita e bisogna passare alla Seconda.
Ma come? Totale è la confusione dal più piccolo organismo politico ai vertici dello Stato. Per fortuna, ci sono ancora molteplici associazioni che esprimono valori d’impegno civile, morale, intellettuale e di volontà solidaristica.
Non funziona più nulla. «Il sistema s’è inceppato – scriveva Giuseppe Gorjux – per quanto abili e impegnati possono essere gli addetti, il macchinario è vecchio e logoro, mentre sono profondamente cambiate le esigenze. La gente lo ha capito da gran tempo. Il mondo politico continua a non capire».
Dopo il fallito tentativo di Mikhail Gorbaciov di salvare il comunismo in Unione Sovietica, il PCI tenta di rinnovarsi, di darsi un volto nuovo, socialdemocratico e fonda, a Bologna il PDS, il Partito Democratico della Sinistra. Ma anche dopo la nascita del PDS la confusione non accenna a diminuire.
Si va avanti piano. Con i soliti intrighi di Palazzo, facezie, dispettucci, battute ironiche di chi non ha un solo pensiero per la testa, chiacchiere da salotto e promesse, tante promesse specie per il Mezzogiorno. E’ un classico: quando la dialettica politica langue, ecco il Mezzogiorno. Un argomento sempre di moda, sempre attuale e così neutro, da non richiedere alcuna assunzione di responsabilità poiché l’irrealizzato è colpa dei governi precedenti – quando non è colpa delle Regioni o di altri Enti locali – e il realizzabile è sempre una promessa da mantenere. E i disoccupati aumentano. Aumenta la micro e la macro criminalità. Aumenta l’incuria, il disinteresse per il bene comune, la litigiosità dei partiti e le inadempienze a cominciare dall’Istituzione regionale pugliese per finire all’ultimo Consiglio provinciale e comunale. Si inseguono appetiti di puro potere lasciando marcire programmi e progetti con conseguente perdita di un fiume di denaro dell’Intervento straordinario e comunitario per carenze di progetti.
Eppure si è speso e si spende tanto che la Regione è a un passo dalla bancarotta. Nessuno pare abbia la più pallida idea dell’ammontare del suo deficit – 2.000 miliardi di lire per la maggioranza di governo regionale, 7.000 per l’opposizione – e i cinque capoluoghi di provincia sono nelle stesse condizioni; sette Giunte di altrettanti comuni del Salento vengono sciolte dal Ministero degli Interni per sospetta collusione con la criminalità organizzata.
Non c’è stata solo negligenza, c’è stato abbandono e Bari, l’antica Regina di Puglia, centro mercantile, commerciale e amministrativo, è passata da città simbolo della operosità pugliese a centro regionale di degrado, corruzione e inefficienza. Così, in assenza di ‘responsabili e responsabilità’ il territorio diventa preda delle organizzazioni criminali: la Sacra Corona Unita nel Salento; la Rosa nella provincia di Bari, la Camorra in Capitanata, la famiglia Modeo a Taranto e i clan di Montani, Diomede, Capriati, Manzari e Parisi a Bari. Questi ultimi sono così orgogliosamente indipendenti dalle tradizionali organizzazioni criminali da allarmare l’Antimafia che paventa, in Puglia, un focolaio delinquenziale che si potrebbe definire ‘quarta mafia’. Di fronte ad un Paese che negli anni Ottanta ha avuto un nuovo grande risveglio economico – l’Italia era la quinta potenza più industrializzata del mondo – la Puglia, grazie ad un impasto di incapacità, affarismo, arroganza e prevaricazione da parte di tanti ‘boss’ politici, ha viaggiato in senso inverso. E’ riuscita, in pochi anni, a mettere in piedi una tale macchina autolesionistica da lasciare allibite anche le pietre.
Questo 1991, poi, è l’anno dei record. Scippi, furti, rapine, estorsioni – con corollario di attentati e incendi di chi non si piega al ‘pizzo’ – prostituzione, contrabbando di sigarette e droga, un fiume di droga e faide fra bande rivali per il controllo del territorio. Era così importante il controllo del territorio da scatenare una guerra, un rosario di morti ammazzati: 64 nel Barese; 55 nel Tarantino; 34 nel Leccese; 30 in Capitanata e 18 nella provincia di Brindisi. 201 morti in un anno. 54 in più dell’anno precedente.
Chi controlla il territorio controlla tutto: dagli appalti pubblici ai grandi affari privati, al ‘pizzo’ nel commercio, ai rifiuti che organizzazioni malavitose, più o meno potenti accolgono e smistano controllando strade e cave dove Tir e interi convogli ferroviari scaricano ogni sorta di rifiuti provenienti dal ‘Nord industrializzato’ senza che nessuno muova un dito. Sono stati portati, depositati e abbandonati decine di carri ferroviari contenenti amianto perfino a Matera dove le Ferrovie dello Stato non arrivano. Poteva bastare per fare della Puglia una zona franca della legalità? No, non bastava. Doveva arrivare pure la zavorra albanese per completare l’opera di ‘decostruzione’ della Puglia. Il 7 marzo, mentre a Roma si apprende con soddisfazione il rilascio dei piloti italiani Bellini e Cocciolone abbattuti sui cieli dell’Iraq, in Albania inizia l’esodo di migliaia di disperati verso i porti pugliesi. La prima città ad essere praticamente invasa dagli albanesi è Brindisi. Sono arrivati in 15mila, stipati su 3 carrette del mare che a malapena riescono a restare a galla. ‘Boat People’ li hanno chiamati, assimilandoli ai profughi vietnamiti in fuga dai Vietcong negli anni Settanta. «Quantunque fosse, possibile – si chiede la Gazzetta – che nessuno sapesse nulla? Governo, ambasciate, servizi segreti, altri poteri di ogni genere, possibile che non sapevano quel che si andava preparando in Albania? Non sapevano che il Governo di Tirana si accingeva a chiudere gli occhi sulla grande fuga?» Forse lo sapevano, ma dopo il disfacimento dell’Impero del male – come lo chiamava l’ex presidente americano Ronald Reagan – all’Occidente non pareva vero di poter continuare a demonizzare vecchi e nuovi comunisti, per dimostrare che, nonostante sigle e facciate nuove, la loro natura di fondo non era cambiata.
Sono rifugiati politici, si dice. Fuggono dal nuovo regime comunista albanese di Ramiz Alia. Ma non ci vuole molto a capire che, invece, è Ramiz Alia che cerca di liberarsi di quei presunti ‘rifugiati’. Molti di loro sono delinquenti comuni, detenuti evasi da carceri colabrodo e disertori di un esercito che il Governo albanese non vuole e non può più sfamare. «Il problema ci è capitato sul tappeto del tutto improvvisamente – commenta sulla difensiva Andreotti – dobbiamo cercare di limitare questo fenomeno. Mi piacerebbe molto che avessimo risorse, terre, case, lavoro per ospitare tanta gente». Poi, con una leggerezza che ha dell’incredibile, aggiunge… «certo, se ognuna delle famiglie italiane che possono si assumesse l’onere per una famiglia albanese, il problema sarebbe risolto rapidamente». Ma il ‘divo Giulio’ si guarda bene dal dire… comincio io! Gli albanesi devono averlo preso per un invito. L’Italia che loro conoscono è quella televisiva, quella cioè di un Paese, se non proprio ricco, quantomeno benestante. Perciò, accolti a Brindisi senza troppe difficoltà, si arrischiano ad attraversare l’Adriatico su decine di barche di fortuna per sbarcare in porti e spiagge pugliesi.
Poi, l’8 agosto, arrivano in massa. Alle 6 del mattino appare, all’imboccatura del porto di Bari, il mercantile ‘Vlora’ con a bordo oltre diecimila profughi ammassati come bestie in ogni angolo della nave. Prefettura e Comune iniziano frenetiche consultazioni con Roma. Sono tutti consapevoli ormai, al Municipio e al Ministero degli Esteri a Roma, che non si tratta di rifugiati politici, ma di una vera e propria fuga di massa dal Paese delle Aquile ridotto alla fame.
«Bisogna impedire in tutti i modi che il mercantile raggiunga il porto» si ordina da Roma. Ma chi deve farlo e soprattutto, con quali mezzi? Alle 11, prima che il ‘Vlora’ ormeggi al porto di Bari, centinaia di giovani albanesi si lanciano in mare nel tentativo di raggiungere la banchina a nuoto… «una scena biblica – scrive il cronista – sembrava che un’invisibile regista stesse girando un film». Ma non era un film.
Era una dura, cruda, incredibile realtà che accadeva in Italia alle soglie del Duemila. Era un esempio lampante di come una falsa immagine poteva illudere un popolo intero. Disperati che venivano in un Paese conosciuto solo attraverso la televisione. Mentre gli albanesi si ammassano sul molo, gli Amministratori baresi tornano a chiedere lumi a Roma… «bisogna rimandarli indietro» è la risposta. E, di nuovo, ci si chiede: sì, ma come? Il sindaco Enrico Dalfino contesta la linea dura del Governo. In quel momento Dalfino vede solo l’aspetto umano della vicenda, la solidarietà. Per il Sindaco, uomo di notevole sensibilità, era inconcepibile lasciare diecimila persone, fra cui donne e bambini, sui moli, sotto un sole implacabile, senz’acqua e senza viveri, in attesa di una soluzione che comunque avrebbe richiesto tempo.
Perciò, incurante delle incomprensibili disposizioni romane, Dalfino concerta di deviare verso il porto diversi autobus dei trasporti urbani e, a gruppi, trasborda i profughi nel vecchio stadio di Bari. Nel frattempo, sia lo stadio sia il porto vengono militarizzati.
Intanto, fra gli albanesi nello stadio e al porto si diffonde la voce che il Governo italiano intende rimpatriarli. I profughi, allora, tentano di forzare i blocchi militari, di uscire, fuggire dallo stadio… «è l’inizio di una guerriglia» che andrà avanti per sei giorni. Gli albanesi tentano di scappare, la polizia tenta di fermarli senza troppo impegno. Molti di loro, compresi i numerosi aderenti alle organizzazioni di volontariato, hanno sposato l’opinione del Sindaco di Bari. L’11 agosto iniziano le operazioni di rimpatrio. Restano, fra lo stadio e il porto, duemila ‘irriducibili’, gente disposta a tutto pur di non tornare in Albania. Nel frattempo si mette in moto la diplomazia nazionale. Vanno in Albania diverse delegazioni governative insieme al neo ministro per l’emigrazione, Margherita Boniver, che torna in Italia con una dichiarazione sconcertante… «non illudetevi, possiamo rimpatriarne tremila, cinquemila, ma torneranno in cinquantamila». Cosa glielo fa pensare – si commenta sui quotidiani – quali accordi sono stati presi col Governo albanese? Perché non ne sappiamo nulla? Il 13 agosto anche il Capo dello Stato fa una visita lampo in Albania. Tornato nel pomeriggio, si intrattiene in Prefettura dove, incontrando i giornalisti, coglie l’occasione per ‘esternare’ il suo malumore contro il Sindaco di Bari reo di aver rilasciato un’intervista al Manifesto in cui Dalfino esprimeva amarezza… «per il trattamento incivile e indegno usato agli albanesi dal Governo». «Dalfino è un cretino – dirà Cossiga agli allibiti giornalisti – le sue dichiarazioni sono semplicemente da irresponsabile… mi auguro che egli abbia la decenza di chiedere scusa all’autorità di governo, se no, sarà mia cura, come Capo dello Stato, chiedere al Governo la sua sospensione dalle funzioni ufficiali». Tre giorni dopo, il Sindaco di Bari chiede e ottiene udienza dal Capo dello Stato e l’incidente è chiuso con reciproca soddisfazione. Dalfino dirà a Cossiga che il Manifesto aveva travisato il senso delle sue parole. Del resto, il Sindaco barese era stimato anche dagli oppositori politici che gli riconoscevano grande correttezza. E il Capo dello Stato che si è accertato della sua buona fede, non manca di attestargli la propria personale stima… «Cossiga mi disse, in tutta sincerità – confiderà Dalfino qualche tempo dopo – che quell’aggettivo non era indirizzato a me ma a quanti, strumentalmente, avevano affrontato l’emergenza ‘soltanto’ in termini umanitari, mentre il problema era nazionale ed europeo». Il 16 agosto, gli ‘irriducibili’, asserragliati nel porto e allo stadio, vengono convinti a desistere con la promessa che non saranno rimandati in Albania. E’ un inganno. Il 17, con un ‘blitz’ a sorpresa delle forze dell’ordine, i profughi saranno caricati su autobus, portati all’aeroporto e rimpatriati. L’invasione è finita. Il bilancio non è stato tragico. Ci sono stati diversi feriti e, in quei drammatici giorni, non si sono registrate vittime. Ma per Bari e per la Puglia i danni furono enormi. Il porto, lo stadio pareva avessero subìto un bombardamento, l’industria turistica avrà danni economici immensi: villaggi, camping e alberghi saranno desolatamente vuoti per tutto il mese di agosto e settembre. Dieci anni dopo, il giornalista Onofrio Pagone, raccoglie la testimonianza di Tahir Memiko, albanese di Fier, residente a Brindisi. E la storia di ‘quei giorni’ cambia… «io c’ero su quella nave, e non eravamo in diecimila ma molti di più. Non fu un esodo senza vittime. Durante la traversata morirono almeno sei, sette persone e, nelle operazioni di ormeggio a Bari, un cavo d’acciaio per il tiraggio delle gru si spezzò e, frustando l’aria, falciò quattro, cinque disperati accanto a me. I cadaveri furono nascosti nelle stive in modo che la polizia italiana non li trovasse. Ma prima che il ‘Vlora’ fosse di nuovo a Durazzo, in Albania tutti sapevano che il mercantile stava tornando indietro con 12 morti». L’anno del nostro scontento.
Alle 3,30 del mattino di domenica 27 ottobre, due piccoli malavitosi esperti nel ‘ramo incendi’, Francesco Lepore e Salvatore Mesto, forzano la porta d’uscita degli artisti del teatro Petruzzelli in via Cognetti, annaffiano il palcoscenico e la platea di liquido infiammabile e vi buttano sopra un fiammifero dando inizio ad un tormentone lungo vent’anni.