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“Tutti i chilometri che servono” è il secondo romanzo di Federico Fascetti, nato a Roma trenta anni fa. La prima cosa che si legge di un libro è, ovvio, il titolo. Quando ho letto questo titolo ho avvertito la sensazione che mi aspettava la lettura di qualcosa di buono. Le aspettative non solo non sono state deluse, ma sono andate ben oltre. Il libro è pensato per un pubblico giovane, ma non è un tipico romanzo di formazione e il target giovane non esclude altre fasce di lettori.
Il protagonista della storia, che non poteva che essere bruttino, malato e abbastanza solo come ogni adolescente (forse, la solitudine è la prima grande scoperta dell’adolescenza, che si erge dalla prima disorientante percezione dell’allontanamento dal nido materno) intraprende un percorso personale, di nascosto ai suoi familiari (a quelli che gli restano, almeno) verso l’effermazione di sé. Un atto di disobbedienza gli farà scoprire una verità che sarà la sua strada verso la felicità, anche se questa felicità necessita diversi chilometri da macinare. La linea di partenza è il forte desiderio di Cuore, alias Alessio Anatolesi, di essere normale, ribellandosi a una situazione di diversità e isolamento cui lo costringe un presunto difetto al cuore; in nome di una “voglia di esserci” nella vita, Alessio romperà la campana di vetro costruitagli intorno per proteggerlo da affaticamenti fisici e morali, ma che aveva finito col renderlo profondamente infelice, più che protetto.
Un po’ Forrest Gump, un po’ Vincet di Gattaca, un giorno e per caso Alessio-Cuore si ritroverà a scattare dietro un pallone, sorprendendo sé stesso ma ancor di più il giardiniere-bidello Grigio (nel libro i protagonisti che gravitano attorno alla scuola hanno tutti un soprannome), atleta dai sogni infranti che coglierà proprio con Alessio l’occasione di riconciliarsi con un passato doloroso, mentre il ragazzo troverà in lui una figura paterna a compensazione dell’abbandono subito dal padre naturale. Comincia così il training agonistico di Alessio, che a dispetto dei divieti medici non risparmia energie in allenamenti, mentre assiste al cambiamento del suo corpo, che da debole ed esile diventa forte e muscoloso; la preparazione atletica assume via, via un ruolo di perfetta metafora dello sforzo adolescenziale di preparazione alla vita.
I personaggi sono descritti con profondità senza annoiare: Alessio è quello che arriva sempre in anticipo, presagendo la sua voglia di arrivare primo; bellissimo il personaggio della nonna, vecchietta senza rimpianti, cuoca mediocre ma dal sorriso impareggiabile; e poi i genitori, presenti molto di più di quanto non si creda, con le ferite date e ricevute, e nonostante una comunicazione tra le righe e assolutamente incompleta.
E poi, il mondo dello sport, visto come sana alternativa a tanti passatempi inutili e vera e propria palestra di vita. Bellissime le parole dedicate alla dignità dei vinti ( chi leggerà il libro e abbia mai ascoltato “Ayrton” di Dalla coglierà una qualche affinità).
Figli da un lato e genitori ed insegnanti dall’altro possono tranquillamente lasciarsi prendere dalla lettura di questo piccolo libro, scritto molto, molto bene: dietro l’apparente semplicità del testo si cela un lavoro di (ottima) scrittura attento e ben meditato, e di alleati di questo genere credo che necessiti la generazione più giovane, dato il rischio sempre costante di cadere nello svilimento grammaticale e lessicale che tanta tv offre. La bella storia, inoltre, può fare presa sui tanti ragazzi che senz’altro si riconosceranno in essa, e se i libri non sono la vita, possono sicuramente dare degli spunti per rifletterci sopra, facendo sentire i lettori meno soli se possono tenere in mano il libro come uno specchio.