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Nella giornata di mercoledì 26 gennaio il concorso principale dei lungometraggi ha mostrato tre opere in cui venivano rappresentati con notevole maestria alcuni luoghi di notevole impatto. Primo ad essere proiettato è Il padre e lo straniero di Ricky Tognazzi. Il regista, presentando in sala il lavoro ha specificato, assieme alla moglie Simona Izzo, co-sceneggiatrice, le urgenze e le esigenze che sono alla base del progetto. Il soggetto proviene dall’omonimo romanzo di Giancarlo De Cataldo e pare contenga più una traccia di autobiografismo. Muovendosi su di uno sfondo internazionale, Il padre è lo straniero ne costituisce un vero e proprio intrigo – tutto sommato prevedibile – in cui un italiano che non vuole riconoscere l’handicap del figlio impara dal padre di un altro bambino più gravemente ammalato ad accettarne la sorte. Il secondo uomo è siriano ed è legato ai servizi segreti. Tra i due nasce bene presto un’amicizia che porta Diego, funzionario ministeriale romano, ad occuparsi delle sorti di Walid, rimanendo vittima di un grave pestaggio da parte dei servizi segreti italiani e ad effettuare erroneamente il cadavere del siriano che cercava in realtà solo di far perdere le sue tracce. Il contrasto tra la Roma frenetica dai palazzoni fascisti all’EUR in cui lavora Diego e gli spazi sconfinati e bellissimi in cui agisce lo straniero, rappresenta, assieme alla colonna sonora nella quale spicca il brano Nur Enayyi, sono l’anima stessa del film. Del tutto marginale quanto a preponderanza degli elementi narrativi appare invece il tema della malattia, e dell’accettazione di questa, raccontato in modo troppo superficiale.Secondo film in concorso è Sul Mare di Alessandro D’Alatri che su un soggetto di Anna Pavignano racconta le bellezze dell’isola di Ventotene, il paesaggio estivo dell’isola e la storia d’amore di un giovane che d’estate fa il barcaiolo e d’inverno il manovale. A causa di una distrazione dovuta al pensiero amoroso per Martina, genovese snob che lo ha sedotto e abbandonato, Salvatore barcarolo/manovale cade da ponteggio e muore. Morte bianca, si dirà, o piuttosto "morte marroncina" , replica la voce narrante del ragazzo che commenta la sua storia dall’esterno, facendone un commento e dandone una morale patetica. La storia avrebbe potuto essere molto bella, senza pretese ma bella, invece sfugge di mano e straborda finendo anche essa in acqua, tanto da poter essere ripescata, asciugata e didascalizzata da due versi degli Elio e le storie tese che così predica: "Servi della gleba a testa alta…anestetizzati da una stronza…" Occorre infatti un po’ decenza per raccontare il fenomeno delle morti bianche e lo si può fare d’altro canto anche senza scomodare Vasco Rossi come d’altro canto fa il film di Luchetti con Elio Germano. Cadere da un pontile infatti non è di solito provocato da fantomatiche problematiche psicologiche o morali legati alla depressione a causa di un amore non felice. Molto più spesso la causa è solo di carattere accidentale e in queste tragedie non v’è psicologia amorosa o indagine emotiva ma purtroppo solo una più oggettiva causa fisica e reale. Anche gli ispettori del lavoro che vanno a visitare il cantiere sembrano due poveri smidollati che predicano senza riuscirci la lotta di classe. Ma questa d’altro canto è l’Italia in cui chi con sta con Marchionne viene considerato un brigatista rosso. A calmare gli animi alle 22:00 compare infine l’interessante pellicola di Michelangelo Frammartino il quale racconta con poche inquadrature e con grande coraggio il ciclo delle stagioni in un paesello sulla Sila calabrese. Finalmente il cinema italiano ritorna al minimalismo e getta via i fronzoli stessi di cui predica, falsamente di essere privo. Sulla montagna, infatti, uomini, animali e piante traggono nutrimento e forza vitale gli uni dagli altri in una continua benedizione data da chi muore a chi nasce e viceversa, nelle Quattro volte infatti la sobrietà e il rigore sono affidati al reale, certo un reale cercato, ed enfatizzato, preparato e acconciato per raccontare una storia. Proprio per questo il limite fra quello che dovrebbe essere un documentario e la finzione viene meno. I segni dei camion che hanno portato il cinema in montagna, la capra sul tavolo immobile, il capretto che resta nel fosso certamente trattenuto, sono elementi di finzione, come la morte del vecchio e la sua sepoltura, al pari del bambino inseguito dal cane che toglie una pietra che blocca la ruota dell’autocarro provocandone lo scivolamento. Le reazioni sono spesso a catena sono previste e prevedibili e sono queste a determinare le chiavi di volta della storia. Nel 1970 il maestro Werner Herzog aveva realizzato, Auch Zwerge haben klein angefangen – Anche i nani hanno incominciato da piccoli, operazione filmica di cui questa di Frammartino è certo debitrice. In quella per 96 minuti un gruppo di nani senza controllo distruggono interno ed esterno di una villa. Ancora prima nel 1968 il regista georgiano di origine armena Sergei Parajanov aveva realizzato Sayat Nova – Color of the Pomegranate forse il più bel film in Tableau vivant mai realizzato. E ancora pochissimi anni fa il maestro magiaro Bela Tar ha terminato il suo commovente Sátántangó, in cui il minimalismo degli affetti si fonde, come nel lavoro di Michelangelo Frammartino con i cicli vitali in una personale ricezione dello spazio-tempo che sfida la frenesia della cinematografia e della vita contemporanea.