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Non saprei se ci aspettavamo un Bellocchio in 5 episodi, che cita la sua vita e i suoi simboli, ma la narrazione di questa pellicola proposta in concorso alla prima giornata del Bifest 2011 – nella sezione lungometraggi – ancora una volta ci parla del maestro piacentino e maggiormente lo identifica nei suoi luoghi natali. Non mancano i parenti dell’autore come nei lavori più noti, e neppure le narrazioni di finzione o l’uso magistrale di qualunque mezzo tecnico anche quello più rozzo, per raccontare e raccontarsi. Per farlo ritorna a Bobbio, sua città natale, così, semplicemente con i pugni in tasca, come vi era partito nel 1959. Certe irruenze degli anni ’60 sono senza dubbio passate, ma sempre sullo sfondo vi sono dei lutti di cui è possibile solo cogliere il profumo, in una sorta di cognizione del dolore, sempre più lontana, e sempre meno dicibile, forse perché troppe volte detta, declamata, evocata. Questa operazione o progetto non è un film come ce lo aspetteremmo, la storia non ha è non potrebbe avere uno sviluppo lineare, un inizio riconoscibile e un finale coerente con questo inizio. Il finale è un corpo che si percorre e non si trova, una donna lasciata in eredità da un amico vecchio ad un amico giovane. E’ l’acqua la fonte di vita dove si attardano corpi dalla plasticità inusuale, non più donne-streghe impegnate in fantomatici Sabba ma amanti e figlie, fatte di carne ed ossa e di sconfinato amore. Nessuna evoluzione nella ricerca musicale, nessun approfondimento ulteriore da aggiungere ad una meravigliosa armonia tecnica, in cui ogni inquadratura racconta senza essere leziosa. In ogni frammento, in ogni istante, il racconto è pieno, compitamente rivolto a se stesso e al suo esterno, la scelta prospettica è completamente delineata in ogni quadro tracciato con abilità. Eppure qualcosa non convince. L’operazione appare faticosa in sé, una necessità di un maestro del cinema europeo a partorire un prodotto didattico. Tale è Sorelle Mai, in cui ancora si parla di cimiteri, di ore di religione, di scuola, e sullo sfondo resta il Crocifisso, non più negato, sotto il quale se ne sta seduto lui stesso, da preside allo scrutinio finale di una classe di liceo classico. Questa operazione filmica ricorda una compiuta nel 2006 da Edgar Reitz autore tedesco che in Heimat-Fragmente: Die Frauen – mai peraltro uscito in Italia – volle riscrivere la storia psicologica, partendo dai frammenti non montati, di una dei protagonisti del suo capolavoro Heimat 3 – Chronik einer Zeitenwende. Cosi come in Die Frauen di Reitz, non vi è più un conflitto familiare da esplorare come era accaduto, in modo distruttivo nei Pugni in tasca. Molte infatti sono le affinità con questa opera prima, ma rispetto a quella, la situazione è molto cambiata. La rabbia e l’auto commiserazione in cui i protagonisti del primo film vivevano, viene abbandonata e unica traccia rimane nella irruente professoressa di latino e greco inquilina della casa familiare ed interpretata da Alba Rohrwacher. Questa comunque, alla fine dell’episodio che la riguarda proclama il definitivo abbandono di ogni forma di ripiegamento che avrebbe potuto portare alla distruzione di se stessa e di coloro che innocentemente da lei dipendevano. Un plauso speciale va in ogni caso attribuito ad Elena Bellocchio, figlia del regista, non attrice e protagonista, nel tempo, dei 5 episodi. Numero che continua a tornare nella maggior parte dei film di Bellocchio come segno statutario di una Kabala performante.